La Forma dell’Oggi

Contemporaneità, progetto, packaging: riflessioni a ruota libera di uno
dei più riconosciuti esponenti del design contemporaneo. Karim Rashid.

Sonia Pedrazzini

Karim Rashid è un designer anglo-egiziano, cresciuto in Canada e residente a New York. È un progettista sfaccettato e prolifico, ha disegnato di tutto, dai cosmetici ai mobili, ai prodotti per la casa, all’oggettistica, alle lampade, agli abiti. Ha imposto la sua creatività in settori come il design, la grafica, la comunicazione, l’arte, la musica (è persino un applaudito DJ) e i suoi prodotti sono stati usati in film e nei programmi di MTV.
Il lavoro di Rashid è apprezzato e ricercato sia dai grandi marchi internazionali (tra cui, solo per citarne alcuni, Sony, Armani, Shiseido, Prada, Issey Miyake, Yahoo!) ma anche da giovani aziende, che fanno del design e dell’innovazione la propria forza vincente, come la californiana Method, per la quale il designer ha creato dispenser e flaconi rivoluzionari nel concetto, inusuali per le forme e l’utilizzo, gradevoli al tatto e alla vista.
Non solo. I suoi progetti sono esposti nei più importanti musei del mondo e in gallerie d’arte. Ha inoltre scritto, pubblicato, insegnato e tenuto conferenze in tutto il mondo.
Karim Rashid si considera un provocatore culturale e non esita a esprimere con forza e convinzione le sue idee sul design, sugli oggetti, sul mondo contemporaneo.

Karim, cos’è un “progetto di design”?
Anzitutto desidero definire il concetto di design, che non è una decorazione superficiale, non è una composizione bonsai, un dipinto a mano su un vaso per fiori: questo è artigianato. Fare un progetto di design significa creare, dare forma, eseguire e realizzare secondo un determinato piano di lavoro, ideare qualcosa e studiarlo nei dettagli; fare uno schizzo, un disegno, un modello per uno specifico scopo. È una pianificazione metodologica, non un’operazione casuale. Design significa veramente costruire qualcosa, sviluppare una nuova condizione per questo mondo artificiale. Definisco il progetto di design come qualcosa che deve essere diretto alla completa soddisfazione dei bisogni e dei desideri contemporanei. Il design non deve essere legato agli stili, alla replicazione del passato, ma è lo sviluppo di soluzioni contemporanee al nostro modo di vivere.
Un’azienda che fonda la propria forza sul design e che dà un incarico a un designer, si trova ad avere a che fare con gli aspetti sociali, umani, politici, creativi ed estetici attuali, non del passato. Oggi, nella società dei consumi, non c’è bisogno di molte “cose”, in compenso “desideriamo” molto. Design non significa dunque risolvere problemi, ma trovare le risposte alle nostre aspirazioni poetiche, estetiche, emozionali e culturali. Design significa anche progresso e innovazione ed è fondamentale per le aziende realizzare oggetti che rispondano alle nuove aspirazioni del consumatore. Se un’azienda non si rinnova di continuo, non può sopravvivere “ai giochi” della globalizzazione, che si sono aperti e sembrano destinati a durare. Non si può più pensare in modo localizzato.

Hai mai avuto un progetto ideale (non necessariamente di design) che in seguito hai potuto realizzare?
Sono molto contento di essere andato oltre il puro ambito del disegno industriale. Faccio mostre d’arte da cinque anni, alla galleria Sandra Gering, da Deitch Projects di e da Elga Wimmer gallery a New York e in parecchi musei come l’Institute of Contemporary Art inoltre sono stato pubblicato su varie riviste d’arte, ma il mondo dell’arte contemporanea fa fatica a prendermi sul serio, soprattutto per i miei prodotti “democratici” a basso costo.
Sono uno dei pochi designer al mondo che fa anche arte ed è magnifico incrociare vari confini, infatti mi occupo anche di musica, film, moda. Il mio vero desiderio è vedere la gente vivere al ritmo del nostro tempo, partecipare a questo mondo e abbandonare ogni forma di nostalgia, le tradizioni antiquate, i vecchi rituali, il kitsch senza senso.
Se la natura umana spinge a vivere nel passato, cambiare il mondo significa cambiare la natura umana. Ho capito che il design ha il potere di cambiare radicalmente i comportamenti sociali, politici e umani; che il suo senso è dare una forma al miglioramento, scolpire un mondo a bassa complessità, bello, intelligente e confortevole. Ho capito che design è il termine che esprime la nozione di contemporaneità e che, quando ci riferiamo al design, stiamo parlando di argomenti attuali, che stiamo già dando forma all’adesso.
Quando ero giovane pensavo a un mondo robotizzato, dove tutto poteva essere prodotto senza il faticoso lavoro di manodopera. Un mondo non disgiunto dalla tecnologia, in cui si potesse comunicare ovunque in tempo reale e immaginavo i nostri spazi come luoghi iperestetici, energetici ed intelligenti. Pensavo anche che nuove tipologie di prodotti, edifici, automobili, arredi, abiti, avrebbero veramente ispirato una nuova info-estetica digitale. Nel 1967, con mio padre e mio fratello, andavo quasi ogni giorno all’esposizione universale di Montreal e vedevo un mondo pensato e progettato da personaggi come Buckminster Fuller, Sarrarin, Colani, Nelson e altri, e quello era il mondo in cui speravo di crescere. Adesso quel mondo è qui, ed è anche più bello, più digitale, più viscerale, comportamentale, comunicativo e fantasmatico che mai. Ed io voglio continuare quella missione, in modo che tutti possiamo abbracciare e connetterci al mondo contemporaneo.

Creatività e design. Che metodo segui per sviluppare nuovi progetti?
Ogni progetto segue metodologie leggermente differenti. La metà delle volte le idee mi vengono durante il primo incontro con il cliente, ma siccome credo in un rigoroso processo metodologico, sviluppo anche altre soluzioni, faccio moltissimi schizzi, ricerco e analizzo procedimenti, tecnologie, materiali, comportamenti umani, per ritornare infine strategicamente alla prima idea. In altre occasioni, prima di arrivare alla soluzione giusta, devo lavorare su vari concept diversi.
Traggo ispirazione da molte cose, dalle parole, dalla filosofia, dall’arte, dalla cultura popolare, dalla musica, dalla vita di tutti i giorni, dai computer e dai programmi digitali, dalla tecnologia. Quest’ultima dovrebbe essere tutt’uno con la produzione, i materiali, il progetto, e comprendere anche l’eliminazione o il riciclo del prodotto. Non è fondamentale che il consumatore sappia tutto ciò, penso infatti che ai suoi occhi l’oggetto debba solo giocare un ruolo umano e che la tecnologia serva solo a renderlo più democratico, a conferirgli poesia e carattere.

Come vedi il nostro mondo futuro?
Il design sarà il nostro scenario universale, senza differenze di luogo o di firma, ma umano, flessibile, organico, intelligente e sperimentale. Credo che i nuovi oggetti che danno forma alla nostra esistenza siano transconcettuali, ibridi multiculturali, oggetti che possono esistere dovunque, in differenti contesti, che sono naturali e sintetici, ispirati dalle telecomunicazioni, dalle informazioni, dall’intrattenimento, dalla tecnologia, da nuovi comportamenti e dalla produzione. L’attuale cultura degli oggetti cattura l’energia dell’era digitale. Nuovi procedimenti industriali, nuovi materiali, il mercato globale, da tutto si può trarre ispirazione per il rimodellamento delle nostre vite.

E il packaging?
È tempo che tutti i prodotti siano belli e intelligenti, indipendentemente dal loro costo; anche l’imballaggio più economico deve essere risolto nell’estetica! Nel ventunesimo secolo ogni packaging verrà ripensato e ridisegnato. Il packaging è necessario e può fornire alla gente esperienze sempre più seducenti. Generalmente, per quanto riguarda il settore cosmetico, i flaconi sono più importanti della fragranza stessa, ma in un ambito che vende immaterialità, il package deve “rappresentare” il profumo, comunicarne l’essenza e tutto il lavoro, l’energia e la complessità che c’è dietro la sua creazione. La bottiglia fornisce identità, marca e un’interpretazione materiale a qualcosa che è assai complesso e astratto. Per secoli le bottiglie di profumo sono state abbellite e rese monumentali.
Un tempo tutti i prodotti erano più decorativi e ornamentali di adesso. Parlavano di ritualità, religione, classi, lusso, regalità, iconoclastia.
Oggi invece, il design “alto” è relegato alla forma di un perfetto rettangolo, ma è noioso, invece abbiamo bisogno di bottiglie che siano il racconto semantico sia del profumo che di un modo di essere.
Nel cosmetic packaging ho lanciato la tendenza di disegnare flaconi che possano essere riutilizzati una seconda volta, invece di essere buttati via. Amo disegnare cosmetici, mi sento molto a mio agio nel farlo, ma sto anche attento a non specializzarmi in questo settore.
Non credo nella specializzazione. Penso che il mondo non abbia frontiere e mi piace navigare tra tutte professioni del progetto, architettura, arte, design del prodotto, interior design, arredamento, mostre, accessori, moda, etc. Mantenendo i confini sfumati posso affrontare qualunque ambito e tipologia, in modo sempre nuovo e differente e ogni progetto diventa motivo di ispirazione per il successivo.

Fra l’altro, hai disegnato i cosmetici monodose di Prada – cosa ci puoi raccontare in proposito?
Il concetto alla base dei monodose di Prada era legato al viaggio, alla nostra esistenza nomade, ad avere prodotti facili da portare, da usarsi solo una volta e puri, perché non contaminati da germi o batteri presenti nell’aria; così se si va in viaggio, o semplicemente in ufficio, o se si sta via solo una notte, si può prenderne solo il quantitativo necessario perfettamente asettico.
Il lavoro è stato lungo e complesso, abbiamo sviluppato 38 diverse piccole ampolle, tubi, fiale, il tutto derivato da schizzi originali non preesistenti. Il progetto è durato tre anni, con grande sforzo di ingegnerizzazione e ricerca.

Qual’è il ruolo degli oggetti nella nostra società?
In mezzo a questo eccesso di merci e di oggetti, la possibilità di “iper -consumare”, di subire la dipendenza dall’immediata soddisfazione del consumo è pericolosa. Ci circondiamo di immmagini, manufatti e prodotti, per dare senso alla nostra esistenza, per creare memoria, presenza e senso di appartenenza. Ma siamo diventati consumisti anche per “passare il tempo”, per gratificare il nostro ego. Avremo sempre “cose” nel nostro mondo, quindi non sto suggerendo di astenerci dal consumare o dal possedere, ma solo di essere iperconsapevoli, di amare e di gioire dei nostri oggetti.
Oppure di farne senza. Gli oggetti caratterizzano il nostro tempo, i luoghi, le relazioni. Possono avere relazioni fenomeniche con la quotidianità e con noi stessi, ma allo stesso tempo possono crearci stress, ostacolare la nostra vita e complicarla. Aggiungere qualcosa alla propria vita può significare anche sottrarre o togliere così che, invece di consumare, si potrebbe “de-consumare”: una teoria di addizione tramite sottrazione, dove il meno può essere il plus. E questo non in base a un approccio minimale o riduttivo, piuttosto come sistema per arricchire la propria vita, accrescendo la propria esperienza con le cose belle, quelle più amate, selezionando le nostre scelte per avere una vita più ricca e per realizzare, alla fine, il lusso più importante del ventunesimo secolo: il tempo libero.
Eliminando le banalità e le frustranti perdite di tempo, potremmo trascorrere il tempo a pensare, creare, amare, essere, usando il tempo in modo più costruttivo. Potremmo anche essere semplicemente più felici, perché adesso siamo bombardati da troppe meschinità, da cose ordinarie, da esperienze mediocri.
Sì, possiamo crescere anche attraverso la sottrazione.

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