Non c’è trucco non c’è inganno

Il trucco non mente quasi mai, anche se inganna sempre

La parola “trucco” nasconde un significato sinistro e fuorviante. Essa rimanda a una procedura ingannevole, a una mistificazione, ci fa intendere che c’è una verità autentica, una realtà, al di sopra della quale viene stesa una sorta di maschera con lo scopo di nascondere le imperfezioni del reale e di contribuire a migliorare l’aspetto del soggetto, falsificandolo. A causa di questo, che io ritengo una sorta di retaggio cattolico, il nostro atteggiamento nei confronti della cosmesi resta profondamente ambivalente: da una parte ne rimaniamo soggiogati ed affascinati, dall’altra la consideriamo una sorta di camuffamento che nasconde il vero Sé del soggetto dallo sguardo degli altri, un segno di debolezza, trasmesso attraverso un’impropria dimostrazione di forza.
Le cose tuttavia non sono affatto così semplici: basterà poco per accorgersi che questo vero Sé che starebbe sotto la maschera è esso stesso una finzione e una mascheratura (un po’ come, nell’agricoltura biologica, il frutto “vero e naturale” sembra contrapporsi al frutto “finto ed artificiale” prodotto attraverso il trucco dei pesticidi e dei conservanti chimici ma, in realtà, sappiamo benissimo che il processo di produzione cosiddetto biologico è anch’esso basato su una serie di tecniche e di procedure che devono portare il prodotto a prestarsi alla grande distribuzione e che l’uso del termine “autentico” è qui fortemente discutibile, tanto più dopo che molti scandali hanno messo in luce la falsità di alcune produzioni che si fregiavano dell’etichetta biologica). Che cosa sarebbe infatti questo vero Sé del soggetto? Freud sostiene che noi perveniamo ad una definizione di noi stessi (rispondiamo alla domanda “chi sono io?”) solo attraverso una serie di identificazioni successive, come se, per sapere chi siamo, dovessimo semplicemente mostrare la gallery fotografica di tutte le persone che abbiamo incontrato, amato, odiato, desiderato ed invidiato fin dalla nostra infanzia; una gallery dalla quale non sono ovviamente escluse le persone immaginarie: gli attori dei film, le pop star, gli idoli televisivi con i quali ci siamo identificati. Ecco: noi siamo la sommatoria di una serie di immagini portate dentro di noi, siamo questa sommatoria in un modo tutto nostro e magari originale, ma siamo appunto questa pluralità di soggetti psichici differenti all’interno dei quali è semplicemente stupido chiedere quale sia quello autentico.
Se le cose stanno così allora qual è il compito svolto dal trucco? Cosa otteniamo truccandoci? Semplicemente decidiamo di far vivere per un certo lasso di tempo una delle tante “persone psichiche” che compongono la nostra identità, la facciamo vivere perché essa svolga il suo compito che può essere tanto quello di suscitare ammirazione e desiderio (come accade nella nostra raffinata società occidentale) quanto quello di segnalare un’intenzione aggressiva o un intento minaccioso come accadeva in alcune società tradizionali.
Non appena l’intento seduttivo o quello minaccioso vengono meno, anche la personalità suscitata può ritornarsene in buon ordine al suo posto in mezzo alle altre senza bisogno che essa appaia come prevalente.
Così, allora, il trucco non mente quasi mai, anche se inganna sempre.
Non mente perché rispecchia sempre un aspetto del soggetto; inganna sempre perché ipostatizza questo aspetto facendo sì che esso prevalga su tutti gli altri e dando la falsa illusione che esso sia l’unico.
Il guerriero non è solo guerriero ma anche contadino, padre, etc. la donna non è solo femme fatale ma anche madre, casalinga, compagna, etc. Tuttavia, anche questo non basta per dirci cosa significhi veramente oggi truccarsi e, soprattutto, se questa operazione sia ancora possibile: se è vero infatti che il trucco non è una semplice falsificazione da contrapporre alla verità, ma rappresenta sempre e soltanto una delle possibilità del soggetto che si trucca, bisogna anche aggiungere che questa operazione per avere senso deve essere socialmente codificata. Non c’è niente che meglio del trucco rappresenti l’ordine simbolico di appartenenza, non c’è niente di meno esportabile, e non c’è niente di più caratterizzante. Ed in effetti il maquillage, a differenza dell’opera d’arte, non può nutrirsi semplicemente dell’energia creativa del soggetto, ma deve trarre la sua fonte di ispirazione principale da una serie di esperienze ben codificate, ci si trucca seguendo un modello definito e l’abilità della messa in atto si misura sulla base dell’efficacia sociale che esso dimostra. Il trucco è cioè una pratica simbolica e non immaginaria. Si comprende bene tutto questo quando si riflette su come sia facile per chiunque registrare la pacchianeria di un trucco eccessivo, come se ognuno di noi possedesse a questo riguardo un canone estetico ben definito ed assolutamente rigoroso. Nel trucco, come in nessuna altra cosa, non è bello ciò che piace ma ciò che risponde a delle precise esigenze sociali. La sua efficacia seduttiva dipende dalla cultura di appartenenza: i trucchi delle donne appartenenti a società primitive sono per noi mostruosi ma affascinano i membri di quelle stesse società, e l’esperienza non è mai esportabile.
La femme fatale e il guerriero, appartengono a dei modelli prodotti da un sistema culturale cui il soggetto si ispira quando decide di truccarsi, ma cosa succede quando questi modelli smettono di esistere? Quando il sistema sociale non offre più punti di riferimento che non siano obversi (che non rappresentino altro che lo sguardo stesso del soggetto)? Succede che truccarsi diventa impossibile perché non esiste più alcun sistema codificato di riferimento, perché non si sa più cosa dire, quali sentimenti suscitare e a chi rivolgersi. Succede che si passa dal trucco al non-trucco, dalla comunicazione seduttiva alla seduzione della non-comunicazione. Va perduta la distinzione di genere e il volto del soggetto non rimane vuoto o senza trucco ma si lascia coprire da una serie di tracce misteriose il cui mistero deriva dal fatto che sono come un linguaggio senza codice, una serie di immagini senza senso, come nel dripping di Pollock: c’è ancora un quadro ma è un non-quadro, di cui permane soltanto il gesto – come se si scrivessero ideogrammi incomprensibili per il puro gusto di lasciare un segno sulla carta.

Antonio Piotti, psicologo,ha pubblicato (con M. Senaldi) Lo Spirito e gli Ultracorpi, Franco Angeli 1999 e Maccarone m’hai Provocato, Bulzoni, 2002.

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