La Belle Haleine

Cos’hanno in comune lo Chanel N° 5 e la storia dell’arte? Una bottiglia di profumo può essere una scultura? L’Eau de Voilette più costosa del mondo è un gioco di parole? Viaggio nelle bizzarrie e nei paradossi tra arte del profumo e profumo d’arte. 

Marco Senaldi

Come può un profumo diventare un’opera d’arte? Come può qualcosa di invisibile come un aroma diventare il soggetto di un oggetto fatto per gli occhi? Il capostipite è con ogni probabilità lo Chanel N° 5, a torto ritenuto un “classico”, mentre invece fu piuttosto un artefatto “rivoluzionario”, nato non a caso nel pieno dei “ruggenti Anni Venti” (1921) dalla creatività di Coco Chanel, amica di artisti come Picasso, Claudel, Stravinsky e diventato solo più tardi una sorta di must have, un irrinunciabile punto di riferimento anche per chi non lo ha mai comprato né indossato.

Non a caso, negli anni ’80, cioè in un decennio in cui vengono ripresi e riletti certi stilemi fashion che avevano avuto la loro origine nella mitica Jazz Age, l’effige dello Chanel viene ripresa in pieno: il gran sacerdote di questa neo- iconofilia consumista, cioè Andy Warhol, su suggerimento della galleria Feldman Fine Arts realizza infatti una serie di stampe dedicate ai miti moderni, e non manca di inserire il N°5.

La spoglia, razionalista, bottiglia in stile Decò acquista, nella versione Warhol, una nuova dimensione: resa trasparente e quasi evanescente, puro profilo campeggiante sopra colori innaturali, quasi televisivi (Warhol sosteneva che l’idea delle serigrafie a colori saturi gli era venuta osservando un televisore fuori sintonia), la serie di stampe warholiane sublima l’oggetto oltre il suo significato di merce di consumo: spettrale immagine di se stesso, l’enorme Chanel incarna un mito sempre al di là delle nostre possibilità di consumarlo, perennemente desiderabile e eternamente inossidabile, una sorta – per parafrasare Oscar Wilde – di “icona senza enigma”.

Per ironia della sorte, o meglio della storia, più o meno negli stessi anni, un esponente sopravvissuto della stagione delle avanguardie storiche, cioè Salvador Dalì (il quale peraltro, con il suo istrionismo e le sue muse eccentriche, come Amanda Lear, fu il maestro segreto dello stravagante stile warholiano) disegnò anch’egli il suo profumo personale.
Da allora il Dalì Perfume, risalente al 1983, contenuto in una bottiglia a forma di labbra col tappo-naso, come se fosse il frammento di una statua antica è diventato anche lui un classico a modo suo. Il profumo daliniano si propone come un piccolo multiplo: in effetti, il contenitore è quasi una scultura, e l’impronta del genio catalano è assolutamente inconfondibile. Le labbra carnose sono la citazione di una citazione: non possono che richiamare il celebre divano a forma di labbra degli anni ’30 – del resto a sua volta ispirato alle carnose labbra cinematografiche di Mae West, la famosa pin up e attrice americana. Ma tutto l’insieme della boccetta crea una tipica immagine doppia à la Dalì: osservandola infatti, la sua silhouette si trascina dietro l’immagine in negativo del volto a cui naso e bocca dovrebbero appartenere, con uno straordinario effetto ipnotico.

Ma la fascinazione degli artisti per l’universo del profumo, per le allusioni che esso dischiude, per le forme di cui una cosa tanto impalpabile si avvolge concretamente, risalgono quasi agli stessi anni in cui Coco creava il N°5 come un’opera d’arte.
Celebre ad esempio è il ready-made assistito Eau de Voilette, firmato, sempre nel 1921, da Marcel Duchamp, e che per realizzarlo si servì di un’autentica bottiglia di profumo Rigaud, di cui rifece l’etichetta e che poi inserì in una custodia ricoperta di velluto viola.
Sull’etichetta si scorge il volto dello stesso Duchamp, ritratto da Man Ray en travesti, cioè nelle sembianze del suo alter ego femmina, Rrose Sélavy (sull’etichetta, infatti, compaiono le iniziali R S).

Il titolo stesso è un rompicapo: anziché Eau de Toilette, come ci si aspetterebbe, troviamo una Eau che però non è nemmeno “de Violette”, come ci aspetterebbe con riferimento all’essenza – ma “de Voilette” come se ci fosse un errore (il tutto sarebbe un oscuro riferimento alla poesia di Rimbaud Les Voyelles, in cui la O è della “viola”).

Più oscuro ancora è il senso del gioco di parole sottostante l’immagine di Duchamp: Belle Haleine, che fa pensare a “Belle Héléne”, ma con una storpiatura significativa: “de longue haleine” in francese significa “di lungo respiro”, ma per Duchamp, appassionato delle cose impalpabili che lui definiva “infrasottili” (“inframince”), l’aria, il respiro, l’alito, il fumo, il profumo, ecc. ecc., erano dimensioni artistiche tanto trascurate quanto essenziali – al punto che a un intervistatore che gli chiedeva cosa facesse per vivere, rispose: “Sono un réspirateur, un respiratore, non le basta?”.

Sarà per questi colpi di genio e di scena (tipicamente duchampiani), sarà perché degli esemplari di questo ready-made modificato se n’è avanzato solo uno – il fatto è che Eau de Voilette è diventato il profumo più costoso di sempre: e ci crediamo, se è vero che quest’unico esemplare (già appartenuto a Yves Saint-Laurent) è stato battuto in asta da Christie’s alla “sommetta” di 8,9 milioni di euro.

Una storia così avvincente non poteva lasciare indifferenti le giovani generazioni artistiche. Sedotto da Duchamp (o forse da Rrose Sélavy?) è stato il nostro Francesco Vezzoli. A distanza di quasi novant’anni, nel 2009 Vezzoli ha pensato di riproporre un profumo-opera che alludesse all’Eau duchampiana, intitolandolo però (concessione molto postmoderna) Greed, cioè Avidità.

La bottiglia è in pratica la stessa di quella di Duchamp, solo che al posto di Rrose compare Francesco/a, vagamente effemminato pure lui. La cosa però notevole è che Vezzoli ha commissionato un video pubblicitario come per il lancio di un profumo vero, anzi meglio: il corto infatti è firmato nientemeno che da Roman Polanski che dirige Nathalie Portman e Michelle William. Come dire: quello che conta ormai, lo sanno tutti, non è il profumo in sé, ma il “profumo del profumo”, la sua disincarnata esperienza mediale, ammantata dall’aroma inconfondibile del glamour spirante da glorie vecchie e nuove, purché hollywoodiane. Insomma, è il passo successivo alla glorificazione warholiana della merce: la glorificazione dell’immaginario.

La storia finisce qui? No, neanche per sogno, fare l’artista contemporaneo, dice qualcuno, significa spostare l’asticella dell’impossibile sempre una tacca più in alto. Si sarebbe tentati di dire che è quello che ha fato un altro artista italiano, Luca Vitone, alla Biennale di Venezia 2013.

Invitato al Padiglione Italia ha optato per una scelta estrema: portare un’opera “che non c’è”. Dovendo dialogare (questo il concept curatoriale) con le fotografie del grande Luigi Ghirri, Vitone ha pensato di giocare la sua partita senza scendere sul terreno del visibile ma dell’olfattivo. Ha così installato nell’ambiente un odore, che “ti piace alla prima annusata, ma poi diventa sgradevole, pizzica in gola, fa venire voglia di deglutire” come ha dichiarato lui stesso. Un odore che ne ricorda un altro, stavolta tutt’altro che glamour: l’odore dell’eternit. Benché impalpabile dunque, l’opera di Vitone parla di uno degli eventi più tragici della nostra storia recente e per poter raggiungere questo risultato l’artista ha dovuto rivolgersi al “naso” Maria Candida Gentile.

A dimostrazione che anche un profumo può far pensar e portare la mente lontano, molto lontano…

 

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