Ritorno alle origini

Perché non riscoprire il piacere di tenere fra le mani una saponetta profumata? La solidità di un oggetto che si scioglie pian piano tra le nostre dita, che possiamo stendere sulla pelle, come una carezza, che ci seduce con un packaging minimale ed effimero, ma molto elegante.

London Fields Soap Company è un’azienda dell’East London con l’ambizione di rilanciare, in epoca di detergenti innovativi, liquidi e cremosi, il classico sapone in barra di una volta. 
Per farlo si è affidata a One Darnley Road, giovane agenzia di creativi che ha lavorato su un’identità di marchio coerente con prodotti fatti a mano e sostenibili, artigianali e biologici ma che anche, per meglio rappresentare “l’estetica del pulito”, dovevano essere necessariamente belli.

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Tutti i prodotti di London Fields Soap Company sono realizzati in piccoli lotti, a chilometro zero, ad Hackney, East London. Gli ingredienti principali includono il tè e la menta piperita (ingredienti talmente buoni da essere commestibili, come sostiene la titolare dell’azienda, Tabitha Kleinert!).

Per il nuovo marchio, che doveva coniugare artigianalità e sensibilità moderna, ci si è ispirati alle tipiche atmosfere Art-Deco, alle sue grafiche (specialmente quelle dei tessuti) e ai suoi caratteri tipografici, resi però più contemporanei.

London_soap_01_WEBAnche per il packaging l’ispirazione è stata un esplicito riferimento alla tradizione locale: l’East End di Londra, infatti, vanta una lunga tradizione nel design e nella fabbricazione tessile. Basti citare, una tra tutti, la storica manifattura di seta e velluti Warner & Sons, che per oltre duecento anni ha prodotto meravigliose stoffe per la regina e i nobili di tutto il Regno Unito.

God save the soap.

“Mal d’Africa”

Cristina Simen ed Emanuela Sauve sono due decoratrici d’interni che dopo vari viaggi in Africa, contagiate da tanta bellezza, hanno voluto condividere la loro passione proponendo una collezione di oggetti e accessori decorati con motivi africani. Tra gli altri, anche flaconi, bottiglie, tetrabrick, confezioni varie che, anziché finire nella spazzatura… 
Una contaminazione che ci piace molto.

Cristina e Emanuela, vivono e lavorano tra Roma e Milano; la loro formazione professionale è quella tradizionale (finti marmi, finti legni, trompe l’oeil e tutto quello che riguarda la decorazione classica) appresa presso il prestigioso Institut Supérieur de Peinture Van der Kelen a Bruxelles.

Lì si sono conosciute e da una decina di anni collaborano in totale sintonia sviluppando idee e progetti e osando sperimentare anche su territori meno ortodossi.
 Come loro stesse ammettono l’ispirazione può nascere in qualunque momento e da qualunque contesto… una parete sbrecciata, un taglio di luce, un ferro arrugginito oppure, come in questo caso, da un viaggio, per esempio in Africa.

I colori, i disegni, le stoffe WAX – stampate con una speciale tecnica a cera – il fantasioso modo di riciclare oggetti poveri e destinati a esser buttati via, ha messo subito in moto il processo creativo che le ha spinte a ideare la collezione chiamata, appunto, AFRICA.
Subito sono stati dipinti set per la tavola, sottopiatti, sottobicchieri e centrotavola decorati come le stoffe africane che le avevano tanto affascinate; e poi tavolini/vassoi, piatti, borsette in legno leggero.

suavesimen_3_rossi_WEBInfine, la serie dei vasi ricavati da imballaggi di vario tipo: contenitori di plastica per detersivi o cartoni del latte, scelti con attenzione e poi decorati e verniciati.
Un nuovo vestito, semplice eppure di grande impatto, per impreziosire e dare una seconda vita a quello che solitamente buttiamo con troppa fretta nella spazzatura.

La prossima volta, pensateci bene, l’abito fa il monaco. Anche per il packaging.

L’eleganza del packaging

La classica busta della spesa, reinterpretata dalle sapienti mani della designero landese Ilvy Jacobs, assume le forme raffinate ed eleganti di un leggero origami e da imballaggio umile ed effimero, diventa un accessorio chic ed originale. Per andare al supermercato con tacco dodici.

Ilvy Jacobs è laureata in Product Design ma la sua specialità è creare borse che si ispirano al mondo degli imballaggi e che dagli imballaggi mutuano qualità, materiali o funzioni.

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Nei lavori di Ilvy sono molto importanti gli aspetti concettuali e di ricerca, come nella serie “Cordbag” dove riprende il lavoro di “impacchettamento del mondo” dell’artista Christo e per il quale utilizza sacchi di Tyvek, un materiale il cui aspetto è simile alla carta e con cui riesce ad enfatizzare l’estetica dell’oggetto.

Ma anche il tema della sostenibilità è sempre presente; è il caso, per esempio, delle borse per il tempo libero “Sport crunchbags”, realizzate con un materiale particolare, cartone accoppiato a tessuto che, come una eco-pelle sofisticata, ridisegna la silhouette di queste particolari sacche da sport.

Per tornare alla borsa origami, l’elegante Foldbag costa 25 euro e si può ordinare sul sito specializzato in prodotti di carta bl-ij.nl. oppure si può richiedere direttamente all’autrice. Magari con il suo autografo come marchio.

Bio-design: la bottiglia “alveare”

Per festeggiare il lancio del suo nuovo whisky al miele, la Dewar’s ha fatto realizzare da 80.000 api una copia ingrandita della bottiglia. Sotto la supervisione di un maestro apicoltore, le indefesse operaie hanno costruito il loro alveare seguendo la forma dello stampo. In circa sei settimane, l’opera è arrivata a compimento. Un risultato incredibile della coalizione tra natura e tecnologia.

Quando la Dewar’s ha deciso di creare una scultura per il lancio di Highlander Honey Whiskey, ha esasperato il concetto della stampa 3-D utilizzando l’abilità delle api e ha dato forma ad un progetto apparentemente impossibile, il “3-B Printing Project”. Ma come si può dirigere uno sciame di api affinché realizzino un alveare proprio come lo vogliamo noi?

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A questa domanda ha saputo rispondere la competenza di The Ebeling Group (che vanta la reputazione di risolvere i progetti più incredibili) e di un maestro dell’apicultura, Robin Theron.
Innanzitutto il team di The Ebeling ha creato un modello 3-D (stampato nel modo tradizionale) che potesse essere usato dalle api come base su cui costruire le loro cellette e lo ha racchiuso in una scocca trasparente, di poco più grande, in modo da riprodurre il reale spazio in cui si muovono le api nelle arnie; questo permetteva anche la perfetta visuale dei “lavori in corso”. Sono stati poi creati i percorsi di entrata e uscita delle api per la ricerca del polline e, infine, sono state introdotte migliaia di operaie.

L’intero processo è durato circa sei settimane, ci sono volute due intere colonie di api, la prima delle quali è stata completamente rimossa prima di poter introdurre la seconda; oltretutto, per evitare che il favo si riempisse di miele e che fossero deposte altre uova, l’ape regina è stata tenuta isolata per alcuni periodi. Le api giravano in piena libertà e per riprenderle mentre atterravano sui fiori e sugli strumenti, tutti indossavano maschere e tute protettive. Una volta  creato l’alveare, la scocca di plastica è stata accuratamente rimossa e il risultato finale è stato sorprendente e scenografico: una splendida bottiglia di miele in forma di bottiglia.

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Per correttezza d’informazione
non si può evitare di citare il lavoro dell’artista Slovaccco Tomáš Gabzdil Libertíny a cui l’agenzia Sid Lee – che ha seguito la campagna per il lancio del nuovo whisky Dewar’s – si è chiaramente ispirata. L’opera di Libertíny, realizzata nel 2007 con una tecnica del tutto simile, utilizzava 40.000 api si chiamava  “slow prototyping”.

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Per saperne di più Slovakian Honeycomb Vase Designer Claims Dewar’s Whiskey Campaign Exploits His Work | Inhabitat – Sustainable Design Innovation, Eco Architecture, Green Building

La Forma dell’Oggi

Contemporaneità, progetto, packaging: riflessioni a ruota libera di uno
dei più riconosciuti esponenti del design contemporaneo. Karim Rashid.

Sonia Pedrazzini

Karim Rashid è un designer anglo-egiziano, cresciuto in Canada e residente a New York. È un progettista sfaccettato e prolifico, ha disegnato di tutto, dai cosmetici ai mobili, ai prodotti per la casa, all’oggettistica, alle lampade, agli abiti. Ha imposto la sua creatività in settori come il design, la grafica, la comunicazione, l’arte, la musica (è persino un applaudito DJ) e i suoi prodotti sono stati usati in film e nei programmi di MTV.
Il lavoro di Rashid è apprezzato e ricercato sia dai grandi marchi internazionali (tra cui, solo per citarne alcuni, Sony, Armani, Shiseido, Prada, Issey Miyake, Yahoo!) ma anche da giovani aziende, che fanno del design e dell’innovazione la propria forza vincente, come la californiana Method, per la quale il designer ha creato dispenser e flaconi rivoluzionari nel concetto, inusuali per le forme e l’utilizzo, gradevoli al tatto e alla vista.
Non solo. I suoi progetti sono esposti nei più importanti musei del mondo e in gallerie d’arte. Ha inoltre scritto, pubblicato, insegnato e tenuto conferenze in tutto il mondo.
Karim Rashid si considera un provocatore culturale e non esita a esprimere con forza e convinzione le sue idee sul design, sugli oggetti, sul mondo contemporaneo.

Karim, cos’è un “progetto di design”?
Anzitutto desidero definire il concetto di design, che non è una decorazione superficiale, non è una composizione bonsai, un dipinto a mano su un vaso per fiori: questo è artigianato. Fare un progetto di design significa creare, dare forma, eseguire e realizzare secondo un determinato piano di lavoro, ideare qualcosa e studiarlo nei dettagli; fare uno schizzo, un disegno, un modello per uno specifico scopo. È una pianificazione metodologica, non un’operazione casuale. Design significa veramente costruire qualcosa, sviluppare una nuova condizione per questo mondo artificiale. Definisco il progetto di design come qualcosa che deve essere diretto alla completa soddisfazione dei bisogni e dei desideri contemporanei. Il design non deve essere legato agli stili, alla replicazione del passato, ma è lo sviluppo di soluzioni contemporanee al nostro modo di vivere.
Un’azienda che fonda la propria forza sul design e che dà un incarico a un designer, si trova ad avere a che fare con gli aspetti sociali, umani, politici, creativi ed estetici attuali, non del passato. Oggi, nella società dei consumi, non c’è bisogno di molte “cose”, in compenso “desideriamo” molto. Design non significa dunque risolvere problemi, ma trovare le risposte alle nostre aspirazioni poetiche, estetiche, emozionali e culturali. Design significa anche progresso e innovazione ed è fondamentale per le aziende realizzare oggetti che rispondano alle nuove aspirazioni del consumatore. Se un’azienda non si rinnova di continuo, non può sopravvivere “ai giochi” della globalizzazione, che si sono aperti e sembrano destinati a durare. Non si può più pensare in modo localizzato.

Hai mai avuto un progetto ideale (non necessariamente di design) che in seguito hai potuto realizzare?
Sono molto contento di essere andato oltre il puro ambito del disegno industriale. Faccio mostre d’arte da cinque anni, alla galleria Sandra Gering, da Deitch Projects di e da Elga Wimmer gallery a New York e in parecchi musei come l’Institute of Contemporary Art inoltre sono stato pubblicato su varie riviste d’arte, ma il mondo dell’arte contemporanea fa fatica a prendermi sul serio, soprattutto per i miei prodotti “democratici” a basso costo.
Sono uno dei pochi designer al mondo che fa anche arte ed è magnifico incrociare vari confini, infatti mi occupo anche di musica, film, moda. Il mio vero desiderio è vedere la gente vivere al ritmo del nostro tempo, partecipare a questo mondo e abbandonare ogni forma di nostalgia, le tradizioni antiquate, i vecchi rituali, il kitsch senza senso.
Se la natura umana spinge a vivere nel passato, cambiare il mondo significa cambiare la natura umana. Ho capito che il design ha il potere di cambiare radicalmente i comportamenti sociali, politici e umani; che il suo senso è dare una forma al miglioramento, scolpire un mondo a bassa complessità, bello, intelligente e confortevole. Ho capito che design è il termine che esprime la nozione di contemporaneità e che, quando ci riferiamo al design, stiamo parlando di argomenti attuali, che stiamo già dando forma all’adesso.
Quando ero giovane pensavo a un mondo robotizzato, dove tutto poteva essere prodotto senza il faticoso lavoro di manodopera. Un mondo non disgiunto dalla tecnologia, in cui si potesse comunicare ovunque in tempo reale e immaginavo i nostri spazi come luoghi iperestetici, energetici ed intelligenti. Pensavo anche che nuove tipologie di prodotti, edifici, automobili, arredi, abiti, avrebbero veramente ispirato una nuova info-estetica digitale. Nel 1967, con mio padre e mio fratello, andavo quasi ogni giorno all’esposizione universale di Montreal e vedevo un mondo pensato e progettato da personaggi come Buckminster Fuller, Sarrarin, Colani, Nelson e altri, e quello era il mondo in cui speravo di crescere. Adesso quel mondo è qui, ed è anche più bello, più digitale, più viscerale, comportamentale, comunicativo e fantasmatico che mai. Ed io voglio continuare quella missione, in modo che tutti possiamo abbracciare e connetterci al mondo contemporaneo.

Creatività e design. Che metodo segui per sviluppare nuovi progetti?
Ogni progetto segue metodologie leggermente differenti. La metà delle volte le idee mi vengono durante il primo incontro con il cliente, ma siccome credo in un rigoroso processo metodologico, sviluppo anche altre soluzioni, faccio moltissimi schizzi, ricerco e analizzo procedimenti, tecnologie, materiali, comportamenti umani, per ritornare infine strategicamente alla prima idea. In altre occasioni, prima di arrivare alla soluzione giusta, devo lavorare su vari concept diversi.
Traggo ispirazione da molte cose, dalle parole, dalla filosofia, dall’arte, dalla cultura popolare, dalla musica, dalla vita di tutti i giorni, dai computer e dai programmi digitali, dalla tecnologia. Quest’ultima dovrebbe essere tutt’uno con la produzione, i materiali, il progetto, e comprendere anche l’eliminazione o il riciclo del prodotto. Non è fondamentale che il consumatore sappia tutto ciò, penso infatti che ai suoi occhi l’oggetto debba solo giocare un ruolo umano e che la tecnologia serva solo a renderlo più democratico, a conferirgli poesia e carattere.

Come vedi il nostro mondo futuro?
Il design sarà il nostro scenario universale, senza differenze di luogo o di firma, ma umano, flessibile, organico, intelligente e sperimentale. Credo che i nuovi oggetti che danno forma alla nostra esistenza siano transconcettuali, ibridi multiculturali, oggetti che possono esistere dovunque, in differenti contesti, che sono naturali e sintetici, ispirati dalle telecomunicazioni, dalle informazioni, dall’intrattenimento, dalla tecnologia, da nuovi comportamenti e dalla produzione. L’attuale cultura degli oggetti cattura l’energia dell’era digitale. Nuovi procedimenti industriali, nuovi materiali, il mercato globale, da tutto si può trarre ispirazione per il rimodellamento delle nostre vite.

E il packaging?
È tempo che tutti i prodotti siano belli e intelligenti, indipendentemente dal loro costo; anche l’imballaggio più economico deve essere risolto nell’estetica! Nel ventunesimo secolo ogni packaging verrà ripensato e ridisegnato. Il packaging è necessario e può fornire alla gente esperienze sempre più seducenti. Generalmente, per quanto riguarda il settore cosmetico, i flaconi sono più importanti della fragranza stessa, ma in un ambito che vende immaterialità, il package deve “rappresentare” il profumo, comunicarne l’essenza e tutto il lavoro, l’energia e la complessità che c’è dietro la sua creazione. La bottiglia fornisce identità, marca e un’interpretazione materiale a qualcosa che è assai complesso e astratto. Per secoli le bottiglie di profumo sono state abbellite e rese monumentali.
Un tempo tutti i prodotti erano più decorativi e ornamentali di adesso. Parlavano di ritualità, religione, classi, lusso, regalità, iconoclastia.
Oggi invece, il design “alto” è relegato alla forma di un perfetto rettangolo, ma è noioso, invece abbiamo bisogno di bottiglie che siano il racconto semantico sia del profumo che di un modo di essere.
Nel cosmetic packaging ho lanciato la tendenza di disegnare flaconi che possano essere riutilizzati una seconda volta, invece di essere buttati via. Amo disegnare cosmetici, mi sento molto a mio agio nel farlo, ma sto anche attento a non specializzarmi in questo settore.
Non credo nella specializzazione. Penso che il mondo non abbia frontiere e mi piace navigare tra tutte professioni del progetto, architettura, arte, design del prodotto, interior design, arredamento, mostre, accessori, moda, etc. Mantenendo i confini sfumati posso affrontare qualunque ambito e tipologia, in modo sempre nuovo e differente e ogni progetto diventa motivo di ispirazione per il successivo.

Fra l’altro, hai disegnato i cosmetici monodose di Prada – cosa ci puoi raccontare in proposito?
Il concetto alla base dei monodose di Prada era legato al viaggio, alla nostra esistenza nomade, ad avere prodotti facili da portare, da usarsi solo una volta e puri, perché non contaminati da germi o batteri presenti nell’aria; così se si va in viaggio, o semplicemente in ufficio, o se si sta via solo una notte, si può prenderne solo il quantitativo necessario perfettamente asettico.
Il lavoro è stato lungo e complesso, abbiamo sviluppato 38 diverse piccole ampolle, tubi, fiale, il tutto derivato da schizzi originali non preesistenti. Il progetto è durato tre anni, con grande sforzo di ingegnerizzazione e ricerca.

Qual’è il ruolo degli oggetti nella nostra società?
In mezzo a questo eccesso di merci e di oggetti, la possibilità di “iper -consumare”, di subire la dipendenza dall’immediata soddisfazione del consumo è pericolosa. Ci circondiamo di immmagini, manufatti e prodotti, per dare senso alla nostra esistenza, per creare memoria, presenza e senso di appartenenza. Ma siamo diventati consumisti anche per “passare il tempo”, per gratificare il nostro ego. Avremo sempre “cose” nel nostro mondo, quindi non sto suggerendo di astenerci dal consumare o dal possedere, ma solo di essere iperconsapevoli, di amare e di gioire dei nostri oggetti.
Oppure di farne senza. Gli oggetti caratterizzano il nostro tempo, i luoghi, le relazioni. Possono avere relazioni fenomeniche con la quotidianità e con noi stessi, ma allo stesso tempo possono crearci stress, ostacolare la nostra vita e complicarla. Aggiungere qualcosa alla propria vita può significare anche sottrarre o togliere così che, invece di consumare, si potrebbe “de-consumare”: una teoria di addizione tramite sottrazione, dove il meno può essere il plus. E questo non in base a un approccio minimale o riduttivo, piuttosto come sistema per arricchire la propria vita, accrescendo la propria esperienza con le cose belle, quelle più amate, selezionando le nostre scelte per avere una vita più ricca e per realizzare, alla fine, il lusso più importante del ventunesimo secolo: il tempo libero.
Eliminando le banalità e le frustranti perdite di tempo, potremmo trascorrere il tempo a pensare, creare, amare, essere, usando il tempo in modo più costruttivo. Potremmo anche essere semplicemente più felici, perché adesso siamo bombardati da troppe meschinità, da cose ordinarie, da esperienze mediocri.
Sì, possiamo crescere anche attraverso la sottrazione.

I’M Glam

A volte succede. Che l’alto e il basso e si tocchino, che il lusso e il mercato di massa si incrocino, che l’haute couture e il packaging si uniscano e producano valore. Succede, soprattutto quando i protagonisti della nuova edizione di Nivea Glam sono una crema cult e un couturier visionario come Antonio Marras.

Sonia Pedrazzini

Lo stile di Marras è inconfondibile, sia nel mondo della fashion – di cui rappresenta un caso unico in Italia per la sua idea di moda fantasiosa ed anticonformista – sia nelle altre attività culturali ed artistiche in cui questo infaticabile creativo si impegna costantemente.
Gli elementi chiave del suo lavoro sono il racconto, l’ornamento e il recupero della manualità artigiana.
Alla base di ogni collezione c’è sempre uno spunto narrativo, una storia, spesso incentrati su personaggi e vicende legati alla Sardegna, il luogo in cui ha scelto di vivere e lavorare, lontano dalle grandi città e dai centri più importanti del mercato economico.
I temi ricorrenti e più profondamente sentititi sono quelli dell’identità e della differenza, del viaggio, della nostalgia, della perdita, ma quello che poi dà voce alla forma dell’abito, il suo aspetto comunicativo, è l’ornamento, per il quale lo stilista dichiara una sfrenata passione. Grazie all’ornamento la forma può coinvolgerci emotivamente e fisicamente; da qui una moda, quella di Marras, prodiga di particolari e dettagli, opere sartoriali che richiedono tecniche di esecuzione straordinarie e che spesso fanno appello alla sapienza delle artigiane di Ittiri, depositarie della tradizione del ricamo sardo.
Racconto, ornamento, manualità artigiana.
Gli stessi ingredienti Marras ha usato per ridisegnare il packaging della “special edition” della crema Nivea.
Protagonista di questa storia è una figura femminile stilizzata, dall’aria retrò e dallo sguardo sognante, che cambia abito pagina dopo pagina, ma dagli oblò perforati fa sempre capolino la mitica creme, ridisegnata con maxi pois bianchi su fondo blu, finché, nell’ultima pagina, la Nivea-doll prende addirittura vita: si può infatti estrarre dal libro per giocare a vestirla come le bambole di carta di un tempo.
Il book è chiuso da un nastro di tela bordeaux ed è contenuto in una shopping bag in canvas ecrù, che sembra disegnata a mano. Il tutto ha un’aria estremamente raffinata ed artigianale, ed è prodotto in serie limitata, 2000 pezzi numerati posti in vendita al prezzo di 30 euro.
Una Nivea troppo costosa? Un accessorio Marras assai economico?
Non importa quale sia la risposta, in questo caso la favola è happy ending, perché sia il compenso dello stilista sia il ricavato delle vendite saranno devoluti a sostegno di un importante progetto di Emergency: la creazione di una corsia chirurgica pediatrica all’interno dell’ospedale di Lashkar-gah, in Afghanistan.

Antonio Marras, hai “vestito” con il tuo stile la confezione di un prodotto storico e popolarissimo come la crema Nivea. Puoi spiegarci come è nata questa collaborazione?
La proposta di inventare un’edizione limitata della ultra-famosa crema Nivea è arrivata esattamente un minuto dopo che mi ero ripromesso di non accettare più nessuna proposta di collaborazione, causa esubero di lavoro: ma la simpatia istintiva che si prova verso quella crema bianca, quell’immagine così familiare e quel profumo inconfondibile hanno fatto sì che, ancora una volta, non mantenessi l’ennesima promessa fatta a me stesso!
Per uno curioso e amante delle sfide come me era impossibile resistere alla tentazione di “dissacrare” questa vera, immutabile icona: esiste qualcuno al mondo che non conosca il barattolo di latta blu con la scritta bianca, da oltre 50 anni sempre lo stesso, presente in tutte le case del mondo? Non è un caso, infatti, che abbia voluto lavorare proprio sulla confezione più classica, escludendo da subito le versioni da borsetta, molto carine e pratiche, ma già troppo “fashion” e moderne rispetto al progetto che avevo in mente. La prima idea istintiva è stata quella di “sporcare” il rigore del monocolore blu con pois bianchi e con una textura densa al tatto: pensando ad una scatola che la contenesse, pian piano è venuta fuori l’idea di un libro-oggetto-bambola, che prende vita pagina per pagina. A progetto terminato, si potrebbe dire che il contenitore ha quasi preso il sopravvento rispetto all’oggetto originale su cui ci era stato chiesto di lavorare, tenendo conto anche del fatto che il tutto è contenuto in una shopping di tela ecrù con stampa effetto manuale.

Parlando di packaging più in generale, che significato ha per te la confezione nel sistema del gusto contemporaneo?
Per me, fondamentale! Mi è capitato di acquistare cose e oggetti solo perché completamente affascinato dall’involucro che li conteneva e totalmente disinteressato al contenuto… Del resto, da sempre pongo moltissima attenzione a tutto ciò che serve ad anticipare un argomento, a comunicare l’oggetto: fin dall’inizio ho investito molto, in termini non solo prettamente economici ma piuttosto di pensiero e di creatività, sugli inviti alle mie sfilate. Dal momento che tratto le mie collezioni come fossero storie da raccontare, le sfilate sono per me le sceneggiature del racconto e l’invito una sorta di introduzione. Lo stesso vale per il packaging.

Cos’è il lusso? Uno stile di vita, la qualità dei prodotti, uno stato mentale…
La parola lusso, presa in sé, non ha nessun significato: è un concetto troppo generico ed ampio per avere una valenza unica e comune. Il lusso inteso semplicemente come oggetto costoso mi sembra assai lontano dall’essere un fenomeno di massa, soprattutto in questi tempi decisamente di crisi: solo i palliativi del lusso possono essere così definiti.
Personalmente, il lusso a cui ambisco di più è il tempo: non il tempo libero, si badi bene, ma tempo per riuscire a fare tutte le cose che vorrei fare e a cui vorrei dedicarmi di più.

Sempre più spesso il mondo della moda dialoga con quello dell’arte contemporanea; come vedi questo rapporto considerando anche le tue dirette esperienze personali, come la collaborazione con artiste quali Maria Lai, Claudia Losi, Carol Rama e gli eventi che ogni anno crei in occasione di Trama Doppia?
Credo che, oggi, queste categorie andrebbero in parte ridefinite; non è più una questione di prestiti o di influenze reciproche, quello che accade è che i confini tra arte e moda diventano sempre più sfumati, al punto che esiste tutta una fascia di esperienze intermedie, difficili da classificare nell’uno o nell’altro dei due ambiti. Personalmente, ho sempre sentito forte la necessità e l’importanza di lavorare su spazi di autonomia creativa.
La libertà è un lusso che mi permetto, per creare qualcosa di trasversale alla moda, qualcosa che nasca da momenti di vita indipendenti, come nel caso dell’incontro con Maria Lai o con Carol Rama. La loro modalità corrisponde in modo naturale a ciò che ho sempre creato. Di sicuro sono uno che ha la fortuna di fare ciò che più ama: un mestiere che mi permette di mischiare tutto, abiti, musica, teatro, cinema …
Mi viene in mente un episodio che riguarda proprio Maria Lai. Una volta le dissi che avevo copiato un suo disegno. Mi ha risposto: “l’arte è un continuo rubare, non ti preoccupare, io rubo dappertutto. Nel momento in cui la rubi, l’opera diventa tua”: ecco, forse la relazione tra arte e moda potrebbe sintetizzarsi in questa immagine.
Secondo te, che ruolo ha assunto oggi la moda nella nostra società, e verso quali direzioni si sta evolvendo?
La moda è uno dei mezzi più efficaci che abbiamo per auto-rappresentarci, quindi svolge una funzione importantissima, anche se per la maggior parte delle persone, compresi ahimè coloro che reggono le sorti dell’economia nazionale, è un gesto frivolo e insignificante. Ci permette di segnalare appartenenze etniche, politiche, ideologiche, culturali; ma ci permette anche di giocare con le apparenze, di costruire e decostruire l’identità che vogliamo offrire allo sguardo degli altri. Più importante ancora, attraverso la moda possiamo elaborare simbolicamente il cambiamento, il tempo che passa, la realtà che si trasforma con ritmi sempre più accelerati. Possiamo accettare di lasciarci il passato alle spalle, di aprire la porta al presente, di guardare al futuro.
Data la situazione economica critica che stiamo attraversando, il bisogno di moda è destinato a far leva sempre più sulla richiesta di prodotti caratterizzati da vera identità ed unicità progettuale. Da questo punto di vista l’Italia al momento non regge il confronto con altre realtà nazionali, che hanno fatto della sperimentazione e dell’innovazione formale i loro punti di forza.
La possibilità di una crescita nel settore mi sembra quindi legata alla sua capacità di rinnovarsi potenziando la ricerca creativa.
È ciò che mi auguro per il bene di tutto il settore, e per il suo positivo sviluppo futuro.

Antoni Muntadas: il Packaging come Medium

Nelle opere dell’artista catalano il packaging è un contenitore di senso ma anche una sottile denuncia dell’universo consumista.

Marco Senaldi

L’interesse di Antoni Muntadas – catalano residente a New York, attivo come artista da oltre trent’anni, veterano di Documenta e di Biennali – è indirizzato verso quello che lui chiama, fin dagli anni 70, il “paesaggio mediale”, “the media landscape”. Con questo termine intende non tanto l’invadente presenza nel panorama urbano di schermi, videocamere, tabelloni pubblicitari, light-box, segnali luminosi, e via dicendo, quanto il fatto che la comunicazione di massa ha veramente eroso il significato di ogni altra forma comunicativa dall’orizzonte delle società avanzate.
Tutte le installazioni a cui Muntadas ha dato vita in questi anni, la maggior parte delle quali raccolte nella grande antologica Proyectos che la Fundaciòn Arte y Tecnologìa di Madrid gli ha dedicato nel 1998, parlano di questo: la sparizione del significato proprio nell’epoca in cui è diventato più facile trasmetterlo in ogni sua forma.
In This is not an Advertisement (“Questo non è uno slogan pubblicitario”), del 1985, ad esempio, egli ha usato il tabellone pubblicitario più famoso del mondo, quello in Times Square a New York, appunto per trasmettere la frase che dà il titolo all’opera – creando un evidente cortocicuito di senso. In un’altra installazione, Exhibition (1987), ha costruito una mostra perfettamente vuota, senza opere, esponendo le tipiche forme di installazione che si impiegano nell’allestimento di una mostra: le luci soffuse per i quadri a parete, il videoproiettore acceso per i video, il piedistallo per le sculture, il proiettore di diapositive per le fotografie, le bacheche illuminate per i disegni, ecc. È chiaro che con lavori come questo Muntadas ci dice come gran parte del fascino di cui godono le opere nei musei dipende non tanto dal loro contenuto – ormai secondario – quanto dall’eleganza con cui sono esposte.
Per Muntadas, nell’epoca dei mass-media succede davvero che il medium finisca per diventare il messaggio, che il contesto predomini sul testo, che la cornice diventi più importante del quadro e, alla fine, coincida con esso.
In questa direzione, non stupisce che questo artista abbia dedicato notevole attenzione al tema del packaging, non tanto come contenitore dominato dai segni della marca, o come veicolo pubblicitario, quanto come cornice che racchiude un contenuto su cui finisce per prevalere. D’altra parte la cornice, proprio come elemento che separa, che segna la differenza tra esterno e interno, tra contenuto e ambiente circostante, tra prodotto e consumo, è anche un concetto molto interessante perché può diventare a sua volta un tramite per nuovi e imprevisti significati.
Chiamato ad esempio a pensare un progetto di “public art” per lo spazio di arte contemporanea francese La Maison du Rhone, Muntadas ha rinunciato a grandi installazioni per le strade o le piazze della città, a favore di un intervento molto più “modesto” ma anche a grande diffusione nella vita pubblica locale, ossia la messa in produzione di una bottiglia (a tiratura illimitata, quindi non da prendersi come “multiplo d’artista”) che recava l’immagine a rilievo della stessa Maison. «In fondo – dice lui stesso – il Museo non è forse una forma di packaging?».

Ma l’opera che più lascia sorpresi per la sua scarna semplicità risale al 1987 e si intitola Natura Morta Generica. In sostanza si tratta dell’esposizione, sugli scaffali della galleria parigina Gabrielle Maubrie, di una serie di prodotti confezionati, e dei loro “ritratti fotografici”, proprio come se fossero pezzi d’arte. Il fatto che i prodotti scelti non riportassero sulla veste grafica esterna, rigorosamente in bianco e nero, nient’altro che il nome del loro contenuto, dà senza dubbio a tutta l’installazione il tono, quasi raffinato ed elegante, di un’abile costruzione “concettuale”.
L’artista stesso (che abbiamo incontrato in occasione di un workshop a Torino) spiega che si trattava semplicemente di merci realmente esistenti comperate in alcuni hard discount che le vendevano in quella forma evidentemente per recuperare margini sul costo del packaging e del graphic-design dell’imballaggio.
“Io sono più interessato a questo tipo di approccio culturale sui dettagli, che alle grandi teorie”, dice, e conferma che l’opera sulla natura morta faceva in effetti parte di un progetto più ampio sulla “genericità”, ossia su quegli oggetti, fatti o significati che, per abitudine o debolezza abbiamo smesso di considerare “specifici” cioè degni di attenzione.
«In Natura Morta Generica c’era un po’ un riferimento alla Merda d’Artista di Piero Manzoni, ma anche alle tele spagnole di bodegones [quadri barocchi di caraffe e bottiglie]; l’idea era quella di un prodotto anonimo che, se non diventa originale, assume un’altra presenza, cambiando un po’ il contesto».
Tramite la messa in bella mostra della merce nella sua forma “generica”, e perciò, anche se imballata, totalmente spoglia di segni, lo spettatore è condotto a riflessioni contrastanti sullo statuto degli oggetti e sul proprio desiderio in quanto consumatore. Da un lato, la merce, svestita dagli abiti sgargianti con cui la si incontra solitamente sugli scaffali dei supermercati appare grigia, monotona e quasi triste, priva di quell’appeal seducente a cui siamo ormai da troppo tempo abituati. Dall’altro, esposta così, nell’aristocratica cornice di una galleria d’arte alla moda in una città europea come Parigi, acquista un plusvalore, un’aura di artisticità, che dà alla sua modesta veste grafica un senso di metafisica astrazione.
Su tutto, in Natura Morta Generica vince l’estrema pulizia formale che rimanda non a caso alle antiche nature morte spagnole del XVII secolo, insieme a una compostezza quasi morandiana – cose molto belle, che non cancellano però la sottile denuncia della frenesia consumista che caratterizza il nostro rapporto con gli oggetti in questo passaggio di secolo.

«Non amo molto il packaging, sono abbastanza anti-consumista… Se devo comprare qualche cosa divento super-nervoso. La cosa che mi ha sempre sorpreso negli USA è che la gente si trova per andare a “fare shopping” insieme, come un fatto socializzante; ma anche in Spagna si sente dire “vamos de compras” (andiamo a far compere)» dice nel suo italo-spagnolo da artista semi-nomade.
«Non mi piace neanche collezionare oggetti. L’unica cosa che ho collezionato per anni – e ne ho veramente tanti – sono quei fogli messi sull’aereo con le istruzioni per come salvarti. È una cosa che nessuno legge. Strano, perché dovrebbe servire a salvarti – nel caso succeda qualcosa sicuramente uno si darebbe dello stupido per non aver letto le istruzioni. È divertente perché è un oggetto basato sulle figure, ma, anche se il messaggio è sempre uguale, il disegno cambia; ogni Paese e ogni compagnia aerea lo interpreta in modo diverso, Lufthansa è differente da Iberia, Quantas da Alitalia, eccetera. Dà molti riferimenti sulla cultura del Paese da cui proviene; però, anche se il disegno vorrebbe essere generico e chiaro, il fatto è che anche la “chiarezza” è un concetto che cambia – in alcuni casi, per certi Paesi come la Corea o il Giappone, è addirittura barocco. Così, l’ho utilizzato per il lavoro sulla traduzione a cui sto lavorando – On Translation – un work in progress che proseguo dal 1997.
Quello che mi interessa è appunto questo rapporto fra lo standardizzato e lo specifico.
Sto anche facendo un lavoro per Barcellona, sul merchandising museale di Mirò. La Càixa, ad esempio, una grossa banca spagnola con un intenso programma culturale, ha preso il suo logo da un segno di Mirò, così anche la Iberia Airlines, e anche l’Ente per il turismo spagnolo, per le sue pubblicità.
E alla Fundaciòn Mirò è tutto un merchandising che va dai piatti
alle t-shirt, dalle calze all’underwear! Poi, quando sono stato a Cuba, per la Bienal de Havana, ho visto che è successo lo stesso con Che Guevara… In Spagna hanno messo il merchandising nel museo, là hanno usato tutto il Paese!».

Le chiacchiere amabilmente intelligenti di Muntadas fanno pensare… Forse che anche gli Stati, i Paesi e le Nazioni si stiano trasformando in giganteschi packaging, con i loro bravi logo colorati e le istruzioni per l’uso, senza che noi, genericamente disattenti, nemmeno ce ne accorgiamo?

la Luna e la Peonia

A Hong Kong i professionisti della grafica si chiamano Kan & Lau. Tradizione e contemporaneità, Oriente e Occidente si fondono nel packaging di due rinomati designer cinesi.

Sonia Pedrazzini

Kan & Lau Design Consultants è una delle più importanti agenzie di grafica di Hong Kong. Lo studio opera dal 1976 e i suoi fondatori, Kan Tai Keung e Lau Freedman, sono noti creativi, insigniti di premi e menzioni sia livello nazionale che internazionale. Nel 1993 Kan è stato segnalato da IDEA come uno dei 100 migliori designer, mentre Lau – figura di spicco anche nel settore del disegno industriale – ha vinto il premio di “Artist of the year” di Hong Kong.
L’agenzia si occupa di progettazione e creatività a tutto tondo: dalla pubblicità all’immagine coordinata, dal packaging al progetto industriale, allestimenti, attività culturali, persino arte pubblica. Non solo, grazie a un team di validi collaboratori internazionali e multiculturali, lo sviluppo dei nuovi prodotti riguarda sia i mercati asiatici che quelli americani. Oriente e Occidente si incontrano e si fondono sotto forma di confezioni, scatole, bottiglie, prodotti e oggetti in genere, tutti rigorosamente ad alto tasso di professionalità.
Tra le svariate creazioni dei due progettisti alcune più recenti meritano di esser citate, come il trofeo per il China Top Ten Benefiting Laureus Sport for Good del 2004 – meglio conosciuto come Oscar per lo sport – realizzato unendo tra loro le sagome stilizzate degli atleti in movimento, le cui figure sono state tratte dalla mappa Dao Yin, una delle più antiche testimonianze relative alle attività sportive; oppure il logo del nuovo canale televisivo CCTV News, in cui si è voluto integrare la parola inglese “news” nell’ideogramma cinese corrispondente, prestando grande attenzione alla fusione tra calligrafia orientale e alfabeto occidentale; o ancora, il lavoro di concept e immagine coordinata per il marchio cinese di abbigliamento per bambini Aico, in cui mascotte e pupazzetti occhieggiano alla grafica dei manga giapponesi.

Abbiamo intervistato Kan Tai Keung, uno dei soci fondatori dello studio e dal 2003 docente alla Cheung Kong School of Art and Design dell’Università di Shantou.

Considerando l’incredibile crescita economica e le trasformazioni sociali in atto, come è cambiato il packaging in Cina nell’ultimo decennio e come cambierà?
La crescita economica cinese negli ultimi dieci anni è stata rapida e ovvia; il benessere sociale ha fatto aumentare il potere d’acquisto delle persone e ha di conseguenza rafforzato il mercato locale. Oggi le aziende in Cina valutano non solo la quantità della produzione ma prestano particolare attenzione anche alla qualità dei loro prodotti. Un buon design è diventato quindi fondamentale; se poi viene situato in un ambiente che favorisce la competizione è facile che il brand arrivi al successo. Un design attento e un packaging ricercato fanno insomma aumentare la competitività del prodotto.

Quali sono le principali differenze tra un packaging disegnato da un progettista orientale e da uno occidentale?
In realtà, l’obiettivo principale di un designer, orientale o occidentale che sia, è il medesimo: soddisfare le funzioni essenziali della progettazione. Sicuramente i designer orientali sono stati influenzati dai moderni concetti occidentali, ma bisogna anche dire che essi riescono con più facilità a soddisfare i bisogni del mercato asiatico, proprio perché conoscono più a fondo le abitudini di vita dei loro connazionali. Inoltre, per loro, sarà più facile instillare nelle aziende locali i principi per una nuova cultura del brand.

Fare il pack-designer in Cina è una professione vincente?
Qui da noi il packaging design si sta sviluppando molto, e offre ancora grandi spazi all’ottimizzazione e al miglioramento; per sostenere questa crescita, l’industria ha sempre bisogno di nuovi talenti e, per questo motivo, i designer dovrebbero lavorare duro per raggiungere standard molto elevati e costruire una propria etica. È anche molto importante il rispetto reciproco e la collaborazione tra aziende e progettisti. Si tratta comunque di un tipo di professionalità ancora molto giovane in Cina e, pertanto, non può che potenziarsi ulteriormente.

Potete raccontarci un vostro progetto di packaging particolarmente ben riuscito?
Un esempio significativo è il lavoro per Wingwah Cakeshop, una casa dolciaria tradizionale cinese che aveva negozi dedicati solo ai clienti locali. Dopo l’intervento globale di brand identità, la creazione di un nuovo imballaggio e di un nuovo marchio, Wingwah è diventata una pasticceria moderna e di respiro internazionale, così aperta al mercato del turismo da trasformarsi in breve in uno dei più famosi negozi di regalistica e souvenir dolciari. In questo caso è molto evidente che, a contribuire allo sviluppo e all’espansione commerciale di questo marchio, hanno avuto grande peso sia il lavoro di brand identity che di totale innovazione del packaging.

A tal proposito, alle parole di Kan Tai Keung vorremmo aggiungere che, per quanto riguarda il nuovo logo aziendale, i caratteri del nome sono stati inscritti in un quadrato e in un cerchio, corrispondenti, rispettivamente, alla forma di una torta cinese e di una luna piena. Nell’intersezione delle due figure si intravede una peonia, altro storico simbolo dell’azienda e perciò meritevole di essere citato, in quanto, come afferma il designer stesso, quando si rinnova l’immagine di un cliente non bisogna comunque mai dimenticare le sue origini, la sua storia e la sua filosofia; invece, per ciò che concerne le confezioni, sono state create ex novo shopping bag del negozio, sacchetti per le tradizionali salsicce cinesi e le confezioni delle torte “wife” e “mini moon”. Il classico e più conosciuto “traditional moon cake”, per non stravolgerne la memoria, ha solo subito un restyling, sono stati mantenuti alcuni caratteri dell’imballaggio precedente – il colore blu con la luna e la peonia – ma oltre al nuovo logo, sono state apportate significative migliorie.

Il Respiro di Gaia

Spesso il mondo della cosmesi trae ispirazione dalla natura. Di solito, sono i prodotti che si contraddistinguono per le loro formulazioni fresche e delicate, ma, nel caso della giovane azienda greca Korres, anche il packaging riesce a trasmettere al meglio “il respiro della Terra”.

Sonia Pedrazzini

Korres Natural Products è un’azienda che si occupa di bellezza e natura dal 1996, emanazione diretta della prima farmacia omeopatica di Atene. Attualmente Korres offre una varietà di circa 150 trattamenti per il corpo e per i capelli, prodotti solari e preparati a base di erbe. Gli ingredienti sono tutti di derivazione naturale e di alta qualità, non vengono utilizzati gli oli minerali e i loro derivati (come le paraffine) ma solo oli vegetali compatibili con l’epidermide; anche i composti a base siliconica sono stati sostituiti da speciali combinazioni vegetali che non otturano i pori della pelle ma la nutrono e la ammorbidiscono. Grazie a tecnologie di estrazione avanzate, i principi attivi delle piante restano invariati e garantiscono il massimo dell’efficacia. Questi sono i principali valori su cui l’azienda ha costruito un successo che è in continua crescita ma, oltre alla qualità del prodotto, quello che più colpisce “a scatola chiusa” è il packaging grafico con cui l’azienda veste i trattamenti. Flaconi, tubi e vasetti sono senza orpelli, sobri, essenziali, pensati per espletare adeguatamente le loro funzioni. Le immagini che li ricoprono, invece, non hanno nulla di minimale: sono foto ravvicinate di fiori, semi, frutti, erbe che palpitano di vita propria. Sono incursioni visive nel mondo della natura e nei suoi elementi vegetali e minerali che, visti così da vicino, appaiono altro, diventano geometrie astratte, vibrazioni di colore, movimenti di onde, e fanno pregustare un’immersione nel benessere. Se un imballaggio deve esprimere il suo contenuto, sicuramente quelli di Korres fanno di più, agiscono sulla psiche e trasportano lontano la mente. Eppure non c’è solo natura in quelle foto, ma anche lo sguardo analitico dell’entomologo che scruta negli interstizi del mondo e c’è quello creativo dell’artista, che compone liberamente la materia. Così, questi packaging non sono né naif, né banali e, allo stesso tempo, rappresentano in modo poetico la fredda distanza della scientificità e il calore della vita. Impackt intervista il direttore creativo di Korres natural products Giannis Kouroudis, responsabile dell’immagine aziendale e vincitore di parecchi premi e riconoscimenti, tra cui il First Packaging Award & Merit for Corporate Identity 2002, il Golden Star Packaging design 2003, e il First Award EB-E 2004 in packaging e advertising.

Qual è il concept e la filosofia che stanno alla base dell’immagine Korres?
Ci siamo basati principalmente su un’astrazione minimalista e geometrica; allo stesso tempo tutta l’immagine aziendale punta a esibire la qualità in termini estetici, senza mettere in ombra il carattere naturale del prodotto.

Come vorrebbe essere definita Korres, in quanto azienda cosmetica?
Alla base della filosofia aziendale c’è la combinazione di tre elementi fondamentali. Anzitutto, grazie al nostro background farmaceutico, ogni lavorazione è ben documentata ed è realizzata attraverso procedure di tipo farmaceutico. Poi, tutti i nostri ingredienti sono derivati naturali.
Il terzo elemento è la “gioia” che anima l’intera gamma di prodotti. Il nostro intento è offrire prodotti che facciano bene, attraenti sia dentro che fuori e, quindi, con un buon odore, con una texture piacevole e, naturalmente, con un bel packaging.

Perché nasce Korres? Per soddisfare un mercato specifico, espressione di bisogni determinati?
Korres Natural Products è stata fondata nel 1996, soprattutto in seguito alle richieste dei clienti della farmacia Korres di avere dei prodotti cosmetici naturali e compatibili con l’omeopatia. Lavorando in quella direzione, quindi, sono stati utilizzati estratti di piante con proprietà medicali per la creazione di prodotti erboristici sicuri ed efficaci. Adesso, a dispetto delle fortune commerciali e dell’ampio riconoscimento, lo sviluppo dei prodotti resta “ingredient-oriented” e non “marketing-oriented”. Partecipiamo assiduamente a programmi di ricerca e sviluppo e cerchiamo nuove idee per sfruttare al meglio le proprietà delle piante in cosmesi.

Chi è il vostro cliente ideale?
Al momento il nostro utente ideale non è determinato dal punto di visto demografico e sociale: ci rivolgiamo in egual misura a uomini e donne di diversa provenienza e ceto, persone che condividono le nostre stesse idee, gli stessi valori e perfino un certo senso estetico: i nostri consumatori sono molti e questa è la ragione per cui questi prodotti sono adottati in mercati apparentemente molto diversi.

Puoi parlarci del tuo ruolo in azienda e di come normalmente lavori?
Sono il direttore creativo e sono responsabile dell’immagine aziendale in toto. Il mio team lavora quotidianamente sul design dei prodotti e sulla comunicazione, sull’organizzazione di mostre e fiere, sul merchandising e persino sulla cancelleria. Di solito con Gorge Korres sviluppo nuovi prodotti o nuove idee e questa collaborazione, alimentata anche da un’amicizia personale, è assai creativa per entrambi.

Hai un ricordo particolare dell’esperienza Korres?
C’è un buffo aneddoto legato ad alcune nuove brochures e al calendario aziendale, libretti rifiniti in modo volutamente grezzo; all’inizio, però, alcuni hanno pensato che si trattasse di prototipi o che fossero il risultato di un errore di rilegatura, e non il prodotto reale.

Anche grazie al packaging, Korres ha saputo darsi un’immagine molto forte: come avete fatto?
La mia influenza è stata certo determinante, ma l’energia di un team di giovani creativi, che lavorano al mio fianco e con cui condivido gli stessi valori, ha reso possibile la nostra affermazione. Assieme a noi, George Korres, il designer Stavros Papagiannis, la mia collega Chrysafis, e tutti i membri di Korres, hanno contribuito a costruire quest’immagine con la loro personalità e il loro senso estetico.

Chi è il fotografo a cui si devono le immagini d’impatto dei vostri package?
Il nostro designer fotografo è Stavros Papagiannis, un vero talento. È incaricato di creare l’immagine dell’azienda ed è capace di trasformare una semplice idea in opera d’arte; anzi, le sue foto sono il punto di partenza di ogni concept.

Come direttore creativo, qual è il tuo punto di vista sul packaging nel settore della cosmesi; ci sono nuovi trend o comportamenti che vale la pena di seguire?
Negli ultimi 15 anni i consumatori sono diventati molto più consapevoli, e non solo in fatto di qualità del prodotto; per esempio guardano con maggiore attenzione a “come è fatto” il packaging. Per questo il design gioca un ruolo sempre più importante nel mercato in genere, e non solo nel settore cosmetico. Questo spiega perché un numero crescente di aziende produttrici dedichino sempre maggiore attenzione all’imballaggio, e Korres, da questo punto di vista, è stata un’antesignana del trend. Cogliere i trend futuri è piuttosto difficile; per noi le tendenze sono fatte dalle persone e perciò dipendono soprattutto dai loro valori e dalle molte “estetiche” personali, sempre in evoluzione.

Dietro le Quinte di Paul Smith

Alan Aboud e Sandro Sodano sono i creativi che hanno costruito e fatto crescere l’immagine nel mondo del marchio inglese Paul Smith, realizzando campagne pubblicitarie, profumi e confezioni di altissimo livello. La moda per loro non ha più segreti e neppure il packaging.

Sonia Pedrazzini

È certo curioso, e speriamo sia anche di buon auspicio, ma questa ad Impackt è la prima intervista che i due creativi concedono subito dopo i cambiamenti sostanziali avvenuti in seno alla loro agenzia. Da pochissimo, infatti, la Aboud+Sodano è diventata Aboud Creative, sotto la direzione di Alan Aboud, mentre Sandro Sodano ha preferito dedicarsi con maggiore impegno alla sua professione di fotografo. Questo, però, non ha interrotto l’antica collaborazione tra i due colleghi, che continua invece proficua e con l’ulteriore possibilità per entrambi di agire più liberamente e su nuovi progetti. Risponde alle nostre domande Alan Aboud.
Qual è il fil rouge che vi unisce e vi accomuna al punto decidere di lavorare insieme?
Quando abbiamo lasciato la scuola d’arte, un nostro collega più anziano che ci aveva fatto da tutor, ci ha offerto di lavorare come freelance nel suo spazio a Soho. Abbiamo trascorso lì 13 anni, per poi capire di doverci mettere in proprio. L’esperienza di Sandro e la sua conoscenza della fotografia e della moda sono state utilissime alla mia formazione dato che, al tempo della St. Martin’s School of Art non ero così consapevole del “fashion system”. Quando poi, da Paul Smith sono arrivate più richieste e lavori che prevedevano anche la fotografia, allora è davvero iniziata la collaborazione con Sandro.

Com’è organizzato il vostro studio?
Ci siamo evoluti negli anni: da piccolo studio con due sole persone a ufficio dove lavora uno staff di otto persone, che diventano dieci nei periodi più impegnativi.
Al cliente offriamo un servizio a tutto tondo: progettiamo, facciamo l’art direction, realizziamo servizi fotografici, anche con ritocchi dell’immagine, e curiamo la post produzione. Quasi sempre tutto viene eseguito all’interno dell’agenzia, consentendomi così di seguire da vicino lo sviluppo dei progetti.

Parliamo di moda e packaging. Che importanza ha il progetto del packaging nell’immagine di una grande maison di moda?
È di assoluta rilevanza. La presentazione dei capi di abbigliamento e il loro packaging aiutano ad aumentare la percezione del valore stesso di un oggetto. Le aziende per la quali lavoriamo investono molto denaro per realizzare la shopping bag giusta o la confezione regalo più adatta al proprio cliente. Bisogna sapere che
molti acquisti legati alla moda servono per fare regali, ed è proprio la confezione regalo che assicura a un negozio la fedeltà dell’acquirente. Se qualcuno compra un gioiello griffato, spendendo 2.000 sterline (circa 2.673 euro), il minimo che si aspetta è una confezione che lo protegga, lo contenga accuratamente e che sia anche la più attraente possibile.
Il costo unitario di tutti i capi di moda comprende peraltro etichette, cartellini e packaging; dipende quindi da ogni stilista decidere quanto investire nell’imballaggio e nella confezione. Le case giapponesi sono quelle che danno maggior valore al packaging: in qualunque negozio di Tokyo, anche se si compra una piccola cosa, questa viene impacchettata in modo delizioso e il cliente lascia il posto sentendosi speciale e pensando già ai prossimi acquisti…

Quando affrontate un nuovo progetto di packaging come vi ispirate e che metodologia usate?
L’ispirazione viene da ogni parte… Da una passeggiata in una galleria d’arte, per la strada, al mercato o guardando un film. Io penso continuamente alle cosa da fare, ai progetti futuri. Sono anche un divoratore di libri, ne compro tantissimi e mi rigenero con i loro contenuti.
Talvolta provo a non comprare libri di design, ma non riesco a rinunciare a quelli meravigliosi di Saul Bass, Herb Lubalin and Robert Brownjohn… I miei eroi. Giro sempre con la macchina fotografica, specialmente quando vado a New York, che è la mia città preferita per ispirarmi. Il negozio di libri che amo di più è Dashwood Books, sulla Bond Street a Broadway. David, il proprietario, conosce bene i miei gusti e quando esco da lì, di solito, sono più povero di diverse centinaia di dollari!!!
Com’è nato il vostro rapporto con Paul Smith e come si è evoluto col tempo?
Era il 1989, l’ultimo anno alla St. Martin’s School; il responsabile acquisti della Paul Smith venne alla presentazione dei lavori di fine corso e selezionò me ed altri colleghi per un colloquio di lavoro come freelance. All’epoca la mia specializzazione era tipografia e non avevo alcuna esperienza nella moda e nell’art direction. Feci il colloquio ed ero la persona meno adatta a quel lavoro, ma a Paul piacqui e quindi iniziai come freelance; all’inizio collaboravo tre giorni alla settimana ma l’impegno andò via via intensificandosi.
Sono stato fortunato a vivere il momento della maggior espansione del marchio, sono cresciuto con questa azienda e soprattutto il rapporto con Paul è stato eccellente. Ci sono pure stati dei momenti difficili, ma stiamo ancora insieme dopo 19 anni. C’è voluto un po’ prima che Paul mi concedesse tutta la sua fiducia, ma adesso ci confrontiamo spesso e può permettersi di darmi un brief di lavoro, composto solo da uno schizzo e poche informazioni, vista l’ottima intesa.
Per i lavori realizzati per Paul Smith avete cercato di imporre il vostro stile, avete fatto vostro lo stile dello stilista, oppure avete lavorato sempre in perfetta collaborazione e unità stilistica?
Non credo di avere un mio vero e proprio stile personale; piuttosto tendo alla semplicità e cerco, in ogni lavoro, la soluzione più chiara e ben ragionata. Penso che un designer, in qualità di fornitore di servizi, abbia la responsabilità di seguire l’immagine del cliente e non il contrario. Siamo dei catalizzatori di immagine e cerchiamo soluzioni progettuali: il cliente ci indica quello di cui ha bisogno o che manca al suo prodotto e noi organizziamo il gruppo di lavoro per assolvere a quei propositi specifici. Grazie al lungo rapporto tra me e Paul, spesso mi trovo nella condizione di essere contemporaneamente cliente e agenzia; è raro che altri decidano in merito ai servizi fotografici etc. Sono di fatto il “guardiano del brand”, dato che ho direttamente contribuito alla sua creazione e, dopo 19 anni, so bene cosa piace o non piace a Paul.

Quali sono gli elementi principali di cui un designer deve tener conto nella progettazione del packaging per il settore dell’Alta Moda?
In ogni progetto la parte più importante è quella di chiarire quale sia il packaging giusto per ogni utilizzatore, ad esempio: è per un uomo o una donna? Di che età? Da quale altra marca è attratto o a quale brand fa riferimento? Dopo aver risposto a queste domande, si può cominciare il proprio progetto. Anche il budget è un elemento significativo e da definire subito.
Uno può anche disegnare un packaging meraviglioso, involucri creati ad hoc, ma se poi è troppo costoso il cliente non lo realizzerà. Oggi l’aspetto economico gioca un ruolo decisivo anche in questo settore e tutte le case di moda di successo sono guidate dai direttori finanziari. Fortunatamente per me, spesso la soluzione più semplice è la migliore. Il lusso talvolta significa semplicità, e spazio.

Un case history, un aneddoto speciale o curioso, di cui potete parlarci?
Spesso Paul mi fornisce le indicazioni di lavoro sotto forma di schizzi e scarabocchi. Ne ho conservati molti e non di rado mi sono serviti anche come utili vademecum su come comportarsi in questo settore.
Dopo tutto Paul ha esordito nel 1970 e quindi ha tutta l’esperienza possibile… Comunque, un giorno cercando alcuni schizzi tra i suoi appunti, ne ho trovato uno che “riassumeva” Paul in modo così preciso che nessun articolo può farlo meglio. Diceva: “Sono al xxx xxx (un famoso hotel di Los Angeles). È pieno di stronzi e buffoni”. Stava cenando da solo dopo aver concesso interviste nel suo nuovo negozio di Los Angeles ed era stato spaventato da alcuni fissati con la moda. Non è strano il suo comportamento, lui è molto, molto umile. Mi piace pensare a Paul come al mio mentore, nella vita e nel lavoro. Lui mi mostra sempre il modo più giusto e onesto di comportarmi. Pur essendo famoso e circondato da star e celebrità, ne resta del tutto incorrotto.

Quali sono gli altri vostri clienti?
Stiamo lavorando per un’azienda di Londra, la Neal’s Yard Remedies, una farmacia omeopatica e rivenditore di prodotti naturali e di bellezza. Mi hanno chiamato come direttore creativo per rivedere tutto il marchio, dal packaging al punto vendita. È un progetto che mi dà molta soddisfazione, perché credo fermamente nei prodotti e negli imballaggi che non danneggiano il corpo o l’ambiente.
Come punto di partenza, l’azienda ci ha fornito un suggestivo “flacone/icona” e una precisa tavolozza di colori. Stiamo lavorando attorno a questi elementi per imprimere al marchio continuità e forza. Stiamo anche lavorando per River Island, una catena di grido, simile a H+M o a TopShop. Una sfida molto diversa, ma nondimeno soddisfacente.

Per quali altre griffe di moda ti piacerebbe lavorare?
Non ambisco a lavorare per molte altre aziende di moda: penso che siano fin troppo strutturate per potermi coinvolgere. Ma mi piacerebbe lavorare per qualche marchio in auge nel passato e che adesso avrebbe bisogno di una revisione, come Laura Ashley, un brand fantastico che ha conosciuto il successo negli anni Ottanta ma che, dopo la morte del proprietario, è sprofondato nella mediocrità.

Qualche anticipazione sui prossimi lavori?
Ci sarà una nuova edizione limitata del profumo da uomo Paul Smith. Un mio libro di immagini chiamato “Above All Else” e anche un libro scritto con mio cugino Simon Aboud dal titolo “Told”. Questa è la prima collaborazione che facciamo con l’agenzia satellite Aboud+Aboud (www.aboud-aboud.com).