Les Pet Petits. Nuovo artigianato sostenibile.

Questioni di design e ambientalismo. Ai manufatti in plastica e in particolare alle bottiglie per l’acqua minerale, vanno le maggiori accuse di “agenti inquinanti” se abbandonate nell’ecosistema. Ma qualcuno ha pensato a come ribaltare le cose e trasformare un difetto (in senso green ovviamente) – la durata pressoché infinita del PET – in un pregio: una serie di braccialetti molto cool, artistici e di lunga durata.

Wojciech Łanecki è un designer e imprenditore polacco il cui desiderio è quello di creare prodotti con una forte carica emotiva e portatori di valori quali: il rispetto per l’ambiente e per il lavoro manuale, la cura per la qualità artigianale nell’epoca della produzione di massa, l’attenzione alla sostenibilità.
I braccialetti Les Pet Petits rappresentano bene tutto questo, sono “gioielli” contemporanei di nuova concezione perché provenienti dal riutilizzo creativo di bottiglie di PET. lesPETpetit_e3ee_WEB

Sono oggetti, però, che non vogliono solo promuovere l’ecologia e il riciclo ma che aspirano anche ad essere desiderabili, glamour e alla moda. Per il loro minimalismo estetico derivato dal lavoro di giovani artisti, questi colorati e leggeri ornamenti, si adattano a tutti gli stili e outfit; sono disponibili in otto colori e due misure, e vengono realizzati  a mano con grande attenzione per la qualità.
Ogni pezzo è curato fin nei minimi dettagli, incluso il packaging che li contiene, una scatolina tonda i cui codici grafici e materici richiamano alla contemporaneità e allo spirito “green”.
Qualcosa di apparentemente lussuoso ma ad un prezzo molto, molto, democratico.
Come “sostenibilità” vuole.

Il mascara dietro le quinte

Un imballaggio deve sempre fare i conti con il prodotto che contiene, in particolare il packaging cosmetico. Ma cosa si nasconde dietro un semplice “battito di ciglia”?  Ce lo racconta Renato Ancorotti, presidente di Ancorotti Group, azienda leader in R&S che realizza make up e prodotti per la pelle per i più importanti marchi internazionali. Sonia Pedrazzini

Quali sono stati i suoi esordi nel mondo della cosmesi?
Ho cominciato con la produzione di make up nel 1984 fondando Gamma Croma.
Gli inizi sono stati avventurosi e intensi, quelli di una piccolissima azienda di tre persone. 
Nel 2008, quando ho venduto le mie quote, eravamo in 350 e la società era diventata il secondo player mondiale. Un anno dopo sono rientrato nel settore, dando vita con mia figlia Enrica alla Ancorotti Cosmetics. A differenza di Gamma Croma che produceva un po’ tutti i prodotti di make up, l’abbiamo specializzata nel mascara, il prodotto di make up in assoluto più difficile perché la combinazione di brush, packaging e formula deve essere bilanciata perfettamente. La formula, in particolare, è in questo caso talmente delicata che, senza le condizioni ottimali, facilmente si altera, perdendo i requisiti originali.

Pochi immaginano quanto lavoro e quanta professionalità ci sia dietro la produzione di un mascara. Come lavora Ancorotti Cosmetics e chi sono i principali clienti?
Senza fare nomi, possiamo affermare che il mascara più venduto in Europa lo produciamo noi, come pure il più venduto in Russia; abbiamo conquistato anche parte del mercato francese, notoriamente molto difficile. Affrontiamo tutte le fasce di mercato e vendiamo sia in Italia che all’estero. Dove i dazi doganali sono alti spediamo solo la formula che poi viene confezionata in loco. In altri casi, il cliente ci fornisce il pack che poi riempiamo con il nostro prodotto e lo mettiamo sul mercato. 
La tendenza comunque sarà sempre più quella di offrire un “full service”, chiedendo addirittura al cliente che vuole acquistare solo il bulk, di fornirci alcuni campioni del packaging in modo da testarlo assieme alla formula. Questo, per essere sicuri che il prodotto che gli forniremo sia conservato nel packaging più adeguato.
Non è detto, infatti, che la miglior formulazione e il miglior imballaggio, messi assieme, alla fine diano il miglior mascara. Per ogni tipo di formulazione ci sarà dunque uno specifico pennello – la cui fibra andrà commisurata alla viscosità e alla densità del mascara – un determinato riduttore che stabilirà la quantità che deve fuoriuscire e persino il materiale dell’imballaggio dovrà essere calibrato con attenzione ed essere compatibile con la stabilità della formula.

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Parlando di packaging cosmetico, cosa la affascina di più in una confezione?

Oggi quello che mi colpisce è soprattutto la qualità; ma anche la capacità di quanti, in un settore come il nostro, riescono a fare oggetti nuovi senza tuttavia alterare il rito, la gestualità del truccarsi. Il mascara, ad esempio, lo apri e lo usi in un certo modo, da sempre; cambiare questi gesti mi sembra impossibile. Pensando al packaging, vorrei che fosse importante e di peso, fatto di materiali moderni e sensoriali capaci di trasmettere preziosità, valore, emozione. Stendere il mascara sulle ciglia per molte donne è diventato un gesto quotidiano, così come usare i prodotti per la cura del corpo, dal sapone, al dentifricio, alle creme… La cosmesi insomma gioca un ruolo “sociale” nella nostra vita e dietro tutto questo c’è la complessità tecnica, la ricerca e la cultura aziendale: fattori questi poco percepiti ma che, per me, sono i più intriganti.

Quali suggerimenti darebbe a un packaging designer e a un’azienda che produce imballaggio cosmetico?
Il designer deve anzitutto conoscere a fondo il settore per cui sta disegnando; deve avere nozioni tecniche, conoscenza dei materiali e delle lavorazioni, ma anche l’umiltà di  sedersi a un tavolo con l’azienda e i suoi tecnici per sviluppare il prodotto secondo i giusti limiti imposti dalla fattibilità.
L’azienda, dal canto suo, deve in primo luogo assicurare che il prodotto rispetti tutti i parametri della qualità. E mostrare più attenzione verso il mondo del design, spesso considerato vacuo: sono sicuro che se designer di grande spessore lavorassero con il settore cosmetico avremmo delle belle sorprese.

Ancorotti_fill_service_WEB_okSi dice tanto “Made in Italy”. Come siamo percepiti all’estero per quanto riguarda la cosmesi?
Negli ultimi anni il valore della nostra immagine è cresciuto molto. L’Italian Style è percepito bene, non solo nel food, nella moda e nel design, ma anche nel cosmetico. Forse non tutti sanno che il 70% del make up mondiale in outsourcing è prodotto in Italia, e che siamo una grande eccellenza, soprattutto in questa zona della Lombardia. 
Produrre in Italia è certamente la condizione necessaria perché un prodotto sia Made in Italy ma non è più sufficiente: è necessario che il prodotto sia realizzato secondo determinate caratteristiche. Il cliente estero si aspetta da noi grande qualità, come quella della Ferrari e del Brunello Cucinelli per intenderci, ma alla dicitura Made in Italy è necessario aggiungere un plus, una sorta di certificazione che garantisca il livello e la qualità della produzione italiana.

E quali sono, secondo lei, le “eccellenze” nel settore cosmetico da far conoscere meglio anche a noi italiani? 
Dario Ferrari, presidente e fondatore di Intercos, è sicuramente il riferimento di questa eccellenza. Questa azienda è la numero uno al mondo, un vero e proprio riferimento nella ricerca e sviluppo prodotto che ha saputo offrire ai clienti soluzioni di marketing e di prodotto innovative e di altissima qualità. 
In Italia il contoterzista non è più un mero esecutore, un semplice fornitore, ma fa ricerca all’avanguardia. È bene sapere che moltissimi dei prodotti più esclusivi oggi sul mercato, magari con marchi di prestigio, sono concepiti e nati in Italia.

Con la fondazione di Ancorotti Cosmetics India, lei ha fatto un deciso salto di scala. Di cosa si occupa questo dipartimento?
Rispetto ai mercati occidentali, quali sono le maggiori difficoltà? 
È un dipartimento creato per soddisfare i mercati emergenti di India e Asia e produce cosmetici in loco formulati su bisogni specifici. Siamo partner di società indiane al 50%, così da avere il polso della situazione e sapere, ad esempio, quali sono i prodotti che si vendono meglio in quella parte del mondo, che sono oggi quelli per le labbra. Il mascara è, infatti, ancora poco utilizzato dalle donne indiane, che lo stanno scoprendo adesso. Si tratta di un mercato complesso e in continua evoluzione, non solo dal punto di vista prettamente industriale ma anche per la sensibilità del pubblico verso la cosmesi. 
Per certo uno dei più grandi problemi è affrontare la burocrazia indiana, molto più complessa della nostra, il che è tutto dire, e con tempi lunghissimi.

La produzione delle formulazioni avviene direttamente in India?
Al momento le prepariamo in Italia e le trasferiamo in India, ma stiamo formando e seguendo dei tecnici per rendere i nostri partner autonomi e portarli a realizzare un prodotto di buona qualità. Produrre in India, per noi, significa lasciare un’eredità importante a quel territorio, ovvero la nostra esperienza e il nostro sapere, che verranno messi a frutto da un’azienda  locale creata per quel mercato. Ma, sia chiaro, non delocalizzeremo mai le nostre aziende italiane.

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E, infatti, il suo desiderio di valorizzare il territorio italiano e vederne implementate le forze produttive, si esprime chiaramente anche nella promozione del “Polo della Cosmesi”. Ci spieghi di cosa si tratta.


In questo momento in Italia c’è una grande crisi e non vedo segni di ripresa. Credo che la  situazione sia molto critica anche perché la nostra economia si basa in prevalenza su piccole e medie imprese, spesso impreparate ad affrontare crisi come quella in cui ci troviamo. In questo contesto, “fare sistema” mi sembra quindi l’unico toccasana: quando i piccoli imprenditori e gli artigiani si coalizzano e fanno filiera, possono ottenere molto. Ma non basta, devono anche guardare all’estero, devono trovare la forza di promuovere i loro prodotti a livello internazionale, dato che non si può dimenticare di vivere in un sistema globalizzato e interconnesso. 
Il Polo della Cosmesi si è strutturato nel 2006, proprio con l’idea di mettere insieme le aziende del territorio cremasco che si occupano di make up e confezionamento. Duplice l’obiettivo, anche ambizioso: unire le forze per fare ricerca e sviluppo e darsi un codice etico. Nella filiera, infatti, tutti devono crescere, non solo in fatturato ma anche con le certificazioni, con la qualità, soprattutto con la formazione, così da poter contare su tecnici ed esperti che parlino un linguaggio comune e che abbiano conoscenze molto specifiche. A tal proposito da gennaio, è partito a Crema il primo corso di “Tecnico di industrializzazione del prodotto e del processo” ideato da Sogecos e Ancorotti SpA, in collaborazione con l’Istituto Galilei di Crema, finalizzato alla formazione di tecnici da inserire poi nelle aziende del territorio.

Bio-design: la bottiglia “alveare”

Per festeggiare il lancio del suo nuovo whisky al miele, la Dewar’s ha fatto realizzare da 80.000 api una copia ingrandita della bottiglia. Sotto la supervisione di un maestro apicoltore, le indefesse operaie hanno costruito il loro alveare seguendo la forma dello stampo. In circa sei settimane, l’opera è arrivata a compimento. Un risultato incredibile della coalizione tra natura e tecnologia.

Quando la Dewar’s ha deciso di creare una scultura per il lancio di Highlander Honey Whiskey, ha esasperato il concetto della stampa 3-D utilizzando l’abilità delle api e ha dato forma ad un progetto apparentemente impossibile, il “3-B Printing Project”. Ma come si può dirigere uno sciame di api affinché realizzino un alveare proprio come lo vogliamo noi?

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A questa domanda ha saputo rispondere la competenza di The Ebeling Group (che vanta la reputazione di risolvere i progetti più incredibili) e di un maestro dell’apicultura, Robin Theron.
Innanzitutto il team di The Ebeling ha creato un modello 3-D (stampato nel modo tradizionale) che potesse essere usato dalle api come base su cui costruire le loro cellette e lo ha racchiuso in una scocca trasparente, di poco più grande, in modo da riprodurre il reale spazio in cui si muovono le api nelle arnie; questo permetteva anche la perfetta visuale dei “lavori in corso”. Sono stati poi creati i percorsi di entrata e uscita delle api per la ricerca del polline e, infine, sono state introdotte migliaia di operaie.

L’intero processo è durato circa sei settimane, ci sono volute due intere colonie di api, la prima delle quali è stata completamente rimossa prima di poter introdurre la seconda; oltretutto, per evitare che il favo si riempisse di miele e che fossero deposte altre uova, l’ape regina è stata tenuta isolata per alcuni periodi. Le api giravano in piena libertà e per riprenderle mentre atterravano sui fiori e sugli strumenti, tutti indossavano maschere e tute protettive. Una volta  creato l’alveare, la scocca di plastica è stata accuratamente rimossa e il risultato finale è stato sorprendente e scenografico: una splendida bottiglia di miele in forma di bottiglia.

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Per correttezza d’informazione
non si può evitare di citare il lavoro dell’artista Slovaccco Tomáš Gabzdil Libertíny a cui l’agenzia Sid Lee – che ha seguito la campagna per il lancio del nuovo whisky Dewar’s – si è chiaramente ispirata. L’opera di Libertíny, realizzata nel 2007 con una tecnica del tutto simile, utilizzava 40.000 api si chiamava  “slow prototyping”.

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Per saperne di più Slovakian Honeycomb Vase Designer Claims Dewar’s Whiskey Campaign Exploits His Work | Inhabitat – Sustainable Design Innovation, Eco Architecture, Green Building

“Ti amo Italia”

Basta piangersi addosso, lamentarsi sempre, svalutare le nostre meraviglie.
Siamo un popolo strano, fatto di genio e sregolatezza, di furbetti e di eccellenze, e in mezzo tanta bellezza. Siamo italiani, siamo così.

Diamoci una mossa e apriamo gli occhi, la crisi c’è e non passerà presto ma una delle nostre migliori qualità è il saperci reinventare.
Su la testa, tiriamo fuori il nostro orgoglio, “Ti amo Italia”… lo dice anche il packaging.

È una bella dichiarazione d’amore quella che Collistar esprime con una capsule collection disegnata da Antonio Marras e caratterizzata da nuance che si ispirano al nostro Paese e ai suoi luoghi simbolo; a suggerire la palette dei colori di rossetti, ombretti, gloss e terre ci pensano infatti le atmosfere di città come Venezia, Milano, Verona, Roma, Siracusa.

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A livello grafico, il fil rouge che percorre tutto il progetto è il tipico segno dello stilista sardo, sotto forma, questa volta, della silhouette di un volto di donna, elegante, essenziale, poetico e che sembra ispirato ai profili senza tempo del grande Modigliani. collistar_bazzani12_web

Interessante è la riuscitissima integrazione tra disegno (l’occhio della donna) e marchio, la “c” simbolo di Collistar, che, assieme all’utilizzo del rosso rubio – il colore identificativo di Marras – per dipingere la bocca della donna, rappresentano il connubio saldo ma discreto tra due marchi del “bel” Made in Italy.

Replicanti (olfattivi) di ricordi

Calvi, 1972. Una passeggiata estiva sulle rive dell’Oceano.
Santa Monica,1994. Effluvi di dolciumi, cremosi e avvolgenti.
Parigi, 2011. Mercato dei fiori.
Firenze, 2003. Una pigra domenica mattina.
Oxfordshire, 1986. Passeggiata nei giardini.
Brooklyn, 2013. Serata al Jazz Club.
Sei fragranze (e relativo packaging) progettate per evocare i ricordi più intensi: è il vintage contemporaneo di Margiela.

I profumi della collezione Replica della Maison Martin Margiela sono pensati per imprigionare ricordi ed emozioni.
Creati dal profumiere Jaques Cavallier, sono stati studiati per evocare istantaneamente memorie, immagini ed impressioni vissute dalla maggior parte di noi, come il Lazy Sunday Morning, che con il suo accordo di muschio bianco sa di bucato pulito e lenzuola di lino, o come il Promenade in the Garden, un profumo fiorito ispirato a una passeggiata nei giardini inglesi o ancora il Jazz Club, la prima della serie dedicata all’uomo, un cocktail di rum, vetiver e foglie di tabacco.

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Le fragranze sono racchiuse in un flacone la cui silhouette si ispira alle fiale da laboratorio dei farmacisti di un tempo, e sono narrate da un’etichetta in cotone, su cui è riportato il dove/come/quando della fragranza: tutte le informazioni tecniche e poetiche necessarie per meglio assaporare l’atmosfera intrappolata nella boccetta.

Le stesse indicazioni appaiono anche sull’astuccio di cartone, dove campeggia anche una fotografia, lo scatto di un istante particolare, quello che ha determinato la storia di ogni profumo.

Il progetto Replica si è esteso alla mostra #smellslikememories, raccolta di lavori fotografici di artisti provenienti da tutto il mondo, che hanno fermato su pellicola i propri ricordi sensoriali e olfattivi e sta continuando anche sulla piattaforma digitale replicafragrances.tumblr.com.

Per chi vuole cimentarsi, ricordi olfattivi (e foto) cercasi disperatamente.

Poste Italiane si rifà il pacco

A testimoniare che il contenitore è sempre più importante ci ha pensato anche Poste Italiane che ha di recente realizzato un’edizione limitata di 100.000 esemplari di un pacco “da collezione” molto speciale. Un Pacco d’Artista, che racconta, con lo stile di Giuseppe Stampone, un viaggio in Italia, attraverso i più significativi monumenti, personaggi, miti e simboli del Bel Paese.

Pacco d’Artista è un progetto a cura di SPIRITO DUE nato da un’idea di Valentina Ciarallo e Maria Chiara Russo con l’obiettivo di trasformare lo storico pacco giallo di Poste Italiane in opera d’arte e di avvicinare i giovani e il grande pubblico all’arte contemporanea.

Un progetto di public art, dunque, dove il pubblico, chiamato a votare il suo pacco preferito, è diventato protagonista insieme agli artisti.

Dopo una preselezione tra i 12 artisti contemporanei invitati a partecipare al progetto (Andrea Aquilanti, Arthur Duff, Flavio Favelli, Giuseppe Pietroniro, Giuseppe Stampone, goldiechiari, Hitnes, Marco Raparelli, Mauro Di Silvestre, Miltos Manetas, Silvia Camporesi e Vedovamazzei), a ottobre scorso i sei pacchi d’autore finalisti sono tati votati direttamente dal pubblico sul sito www.leavventuredipaco.com.

La scatola più gettonata è stata quella di Giuseppe Stampone intitolata “L’ABC del Bel Paese” (foto in apertura). L’artista abruzzese ha così ha commentato la vittoria: «L’aver partecipato a un progetto del genere è più importante di qualsiasi mostra in un museo. Oggi l’opera “soffre” se resta unicamente nel circuito dell’arte, per questo uno degli obiettivi nella ricerca artistica resta sempre la fruizione dell’arte contemporanea su larga scala».

Silvia Camporesi
Silvia Camporesi

Secondo in classifica, a pochissima distanza di voti, il pacco di Silvia Camporesi, che riprende un’immagine liberamente tratta dall’ultima scena di Zabriskie Point di Antonioni: una colorata esplosione di abiti e oggetti e, quindi, di storie di varia umanità, quelle che ogni pacco in viaggio per il mondo potrebbe celare dentro di sé.

Marco Raparelli
Marco Raparelli
Hitnes
Hitnes
Mauro Di Silvestre
Mauro Di Silvestre
Arthur Duff
Arthur Duff

La Belle Haleine

Cos’hanno in comune lo Chanel N° 5 e la storia dell’arte? Una bottiglia di profumo può essere una scultura? L’Eau de Voilette più costosa del mondo è un gioco di parole? Viaggio nelle bizzarrie e nei paradossi tra arte del profumo e profumo d’arte. 

Marco Senaldi

Come può un profumo diventare un’opera d’arte? Come può qualcosa di invisibile come un aroma diventare il soggetto di un oggetto fatto per gli occhi? Il capostipite è con ogni probabilità lo Chanel N° 5, a torto ritenuto un “classico”, mentre invece fu piuttosto un artefatto “rivoluzionario”, nato non a caso nel pieno dei “ruggenti Anni Venti” (1921) dalla creatività di Coco Chanel, amica di artisti come Picasso, Claudel, Stravinsky e diventato solo più tardi una sorta di must have, un irrinunciabile punto di riferimento anche per chi non lo ha mai comprato né indossato.

Non a caso, negli anni ’80, cioè in un decennio in cui vengono ripresi e riletti certi stilemi fashion che avevano avuto la loro origine nella mitica Jazz Age, l’effige dello Chanel viene ripresa in pieno: il gran sacerdote di questa neo- iconofilia consumista, cioè Andy Warhol, su suggerimento della galleria Feldman Fine Arts realizza infatti una serie di stampe dedicate ai miti moderni, e non manca di inserire il N°5.

La spoglia, razionalista, bottiglia in stile Decò acquista, nella versione Warhol, una nuova dimensione: resa trasparente e quasi evanescente, puro profilo campeggiante sopra colori innaturali, quasi televisivi (Warhol sosteneva che l’idea delle serigrafie a colori saturi gli era venuta osservando un televisore fuori sintonia), la serie di stampe warholiane sublima l’oggetto oltre il suo significato di merce di consumo: spettrale immagine di se stesso, l’enorme Chanel incarna un mito sempre al di là delle nostre possibilità di consumarlo, perennemente desiderabile e eternamente inossidabile, una sorta – per parafrasare Oscar Wilde – di “icona senza enigma”.

Per ironia della sorte, o meglio della storia, più o meno negli stessi anni, un esponente sopravvissuto della stagione delle avanguardie storiche, cioè Salvador Dalì (il quale peraltro, con il suo istrionismo e le sue muse eccentriche, come Amanda Lear, fu il maestro segreto dello stravagante stile warholiano) disegnò anch’egli il suo profumo personale.
Da allora il Dalì Perfume, risalente al 1983, contenuto in una bottiglia a forma di labbra col tappo-naso, come se fosse il frammento di una statua antica è diventato anche lui un classico a modo suo. Il profumo daliniano si propone come un piccolo multiplo: in effetti, il contenitore è quasi una scultura, e l’impronta del genio catalano è assolutamente inconfondibile. Le labbra carnose sono la citazione di una citazione: non possono che richiamare il celebre divano a forma di labbra degli anni ’30 – del resto a sua volta ispirato alle carnose labbra cinematografiche di Mae West, la famosa pin up e attrice americana. Ma tutto l’insieme della boccetta crea una tipica immagine doppia à la Dalì: osservandola infatti, la sua silhouette si trascina dietro l’immagine in negativo del volto a cui naso e bocca dovrebbero appartenere, con uno straordinario effetto ipnotico.

Ma la fascinazione degli artisti per l’universo del profumo, per le allusioni che esso dischiude, per le forme di cui una cosa tanto impalpabile si avvolge concretamente, risalgono quasi agli stessi anni in cui Coco creava il N°5 come un’opera d’arte.
Celebre ad esempio è il ready-made assistito Eau de Voilette, firmato, sempre nel 1921, da Marcel Duchamp, e che per realizzarlo si servì di un’autentica bottiglia di profumo Rigaud, di cui rifece l’etichetta e che poi inserì in una custodia ricoperta di velluto viola.
Sull’etichetta si scorge il volto dello stesso Duchamp, ritratto da Man Ray en travesti, cioè nelle sembianze del suo alter ego femmina, Rrose Sélavy (sull’etichetta, infatti, compaiono le iniziali R S).

Il titolo stesso è un rompicapo: anziché Eau de Toilette, come ci si aspetterebbe, troviamo una Eau che però non è nemmeno “de Violette”, come ci aspetterebbe con riferimento all’essenza – ma “de Voilette” come se ci fosse un errore (il tutto sarebbe un oscuro riferimento alla poesia di Rimbaud Les Voyelles, in cui la O è della “viola”).

Più oscuro ancora è il senso del gioco di parole sottostante l’immagine di Duchamp: Belle Haleine, che fa pensare a “Belle Héléne”, ma con una storpiatura significativa: “de longue haleine” in francese significa “di lungo respiro”, ma per Duchamp, appassionato delle cose impalpabili che lui definiva “infrasottili” (“inframince”), l’aria, il respiro, l’alito, il fumo, il profumo, ecc. ecc., erano dimensioni artistiche tanto trascurate quanto essenziali – al punto che a un intervistatore che gli chiedeva cosa facesse per vivere, rispose: “Sono un réspirateur, un respiratore, non le basta?”.

Sarà per questi colpi di genio e di scena (tipicamente duchampiani), sarà perché degli esemplari di questo ready-made modificato se n’è avanzato solo uno – il fatto è che Eau de Voilette è diventato il profumo più costoso di sempre: e ci crediamo, se è vero che quest’unico esemplare (già appartenuto a Yves Saint-Laurent) è stato battuto in asta da Christie’s alla “sommetta” di 8,9 milioni di euro.

Una storia così avvincente non poteva lasciare indifferenti le giovani generazioni artistiche. Sedotto da Duchamp (o forse da Rrose Sélavy?) è stato il nostro Francesco Vezzoli. A distanza di quasi novant’anni, nel 2009 Vezzoli ha pensato di riproporre un profumo-opera che alludesse all’Eau duchampiana, intitolandolo però (concessione molto postmoderna) Greed, cioè Avidità.

La bottiglia è in pratica la stessa di quella di Duchamp, solo che al posto di Rrose compare Francesco/a, vagamente effemminato pure lui. La cosa però notevole è che Vezzoli ha commissionato un video pubblicitario come per il lancio di un profumo vero, anzi meglio: il corto infatti è firmato nientemeno che da Roman Polanski che dirige Nathalie Portman e Michelle William. Come dire: quello che conta ormai, lo sanno tutti, non è il profumo in sé, ma il “profumo del profumo”, la sua disincarnata esperienza mediale, ammantata dall’aroma inconfondibile del glamour spirante da glorie vecchie e nuove, purché hollywoodiane. Insomma, è il passo successivo alla glorificazione warholiana della merce: la glorificazione dell’immaginario.

La storia finisce qui? No, neanche per sogno, fare l’artista contemporaneo, dice qualcuno, significa spostare l’asticella dell’impossibile sempre una tacca più in alto. Si sarebbe tentati di dire che è quello che ha fato un altro artista italiano, Luca Vitone, alla Biennale di Venezia 2013.

Invitato al Padiglione Italia ha optato per una scelta estrema: portare un’opera “che non c’è”. Dovendo dialogare (questo il concept curatoriale) con le fotografie del grande Luigi Ghirri, Vitone ha pensato di giocare la sua partita senza scendere sul terreno del visibile ma dell’olfattivo. Ha così installato nell’ambiente un odore, che “ti piace alla prima annusata, ma poi diventa sgradevole, pizzica in gola, fa venire voglia di deglutire” come ha dichiarato lui stesso. Un odore che ne ricorda un altro, stavolta tutt’altro che glamour: l’odore dell’eternit. Benché impalpabile dunque, l’opera di Vitone parla di uno degli eventi più tragici della nostra storia recente e per poter raggiungere questo risultato l’artista ha dovuto rivolgersi al “naso” Maria Candida Gentile.

A dimostrazione che anche un profumo può far pensar e portare la mente lontano, molto lontano…

 

Cassette (d’artista) e Bollicine

Fondata nel 1729, Ruinart è la più antica maison di champagne al mondo.
La prima che per invecchiare i suoi vini ha utilizzato profonde e antiche cave di pietra scavate sotto la città di Reims. La prima a custodire, dalla fine del XVIII secolo, le bottiglie in scatole di legno e la prima a riproporre l’uso della bottiglia a bulbo.

Con questi presupposti il designer olandese Piet Hein Eek ha creato le casse in legno per il Blanc de Blancs de Ruinart.
Ovviamente seguendo il suo stile nordico e molto “eco-chic”.

Per evitare inutile spreco di materiali e ottimizzare il trasporto riducendo al massimo l’impatto ambientale, ha ideato e realizzato uno scrigno trapezoidale la cui sagoma è stata idealmente ritagliata, con una serie di tangenti minimali, sullo spazio fisico occupato dalla bottiglia.

Ne è derivata una cassetta tronco-piramidale che – oltre ad assolvere la funzione di vero e proprio packaging “d’artista” – avendo una forma che ricorda le chiavi di volta utilizzate nei portali, come fosse un elemento architettonico ricorrente (o come un pezzo del “Lego”) può essere impilata in modo molto compatto e usata per comporre grandiose e scenografiche istallazioni.


Secondo il tipico approccio di Eek, il legno delle casse è riciclato, ma per meglio riprendere i colori del Blanc de Blancs è stata scelta un’essenza di pino pazientemente selezionata nelle tonalità del grigio pallido, bianco e crema e poi trattata in superficie con lacche che ne impreziosiscono la finitura. Ogni cofanetto è stato realizzato a mano negli atelier di Piet Hein Eek, a Geldrop, nei pressi di Eindhoven, ed è firmato e numerato così da diventare unico, come la bottiglia che contiene.

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Dalla Puglia con amore

Olio, tarallucci e timbri sono gli ingredienti di un progetto made in Italy al 100%. Nato dalla passione per il design, la tipografia e il buon cibo, Typuglia è un giovane marchio che propone specialità gastronomiche pugliesi “vestite” a regola d’arte.

L’ideatore, Leonardo Di Renzo, amante della sua terra, della tipografia e creativo di professione, ha avuto la felice intuizione di promuovere e distribuire i prodotti migliori della sua regione arricchendoli di un packaging accurato, debitamente progettato per trasmettere i valori ancora insiti in queste produzioni autoctone: artigianalità, qualità degli ingredienti, manualità, estro e buon gusto, ma anche nuove doti come la sostenibilità e l’etica.


La spinta di tutto è stata la passione per la tipografia e il desiderio di riscoprirne l’antica tecnica, di ritrovare quella manualità che si stava perdendo sulle scrivanie digitali.

Di Renzo e i suoi soci adesso selezionano taralli, orecchiette, sughi e olio extravergine da piccole aziende locali che lavorano alla maniera tradizionale. Poi, con l’estro dei creativi, ideano e realizzano tutte le confezioni (a mano, una per una, anch’esse come fossero un prodotto gastronomico fatto in casa) – dall’orcio in terracotta lavorata e dipinta a mano, alla scatola di cartone alveolare riciclabile e riutilizzabile come portagioie o lampada (basta seguire le semplici istruzioni contenute all’interno della confezione), alle etichette stampate a mano e numerate, alle mini bag contenenti vere foglie di ulivo – e infine si occupano della vendita e della distribuzione.

Il target è ben preciso, Di Renzo e compagni li chiamano i “gourmet designer”, esigenti, capricciosi, perfezionisti e insaziabili, sono quelli che si aggirano con curiosità tra i banchi dei bookshop di musei e gallerie d’arte, frequentano bistrot, spiano tra gli scaffali delle enoteche e delle gastronomie per appagare i più raffinati desideri. Proprio come loro.

 

Pump up the Parfum

Se vuoi esser una vera pop star e farti ricordare per sempre dai tuoi fan, non puoi non avere il tuo profumo. Le Celeb come Madonna, Lady Gaga, Nicki Minaj si rilanciano con il beauty e il packaging diventa un’arma di seduzione di massa.

Sonia Pedrazzini

Nel mercato dell’immagine globale le fragranze delle “celebrities” sono un fenomeno in crescita. I profumi non sono più unicamente il frutto di appassionata ricerca da parte di storiche maison della bellezza bensì veri e propri oggetti per fare branding o per comunicare marchi quando non addirittura persone, anzi, “celebrities”: pop star, stelle del cinema, modelle e socialite, che creano il loro profumo personale, un oggetto che offrendo emozioni, sensazioni visive e olfattive, rappresenti l’essenza mediatica del loro personaggio.
Soprattutto nel caso delle fragranze delle popstar spesso il packaging è esagerato, persino brutto, tuttavia non è quasi mai banale perché incarna il look, lo stile, il gusto estetico di questo o quel personaggio, una sorta di accessorio-feticcio per la gioia dei fan, da guardare, toccare, odorare.

Per consolidare l’immaginario del pubblico, i profumi delle popstar sono lanciati sul mercato sempre accompagnati da una storia, un video, una canzone. La campagna pubblicitaria è firmata da grandi nomi della creatività internazionale, fotografi e registi cooperano per realizzare un prodotto perfetto sotto tutti i punti di vista; musica, video, grafica, design, moda e naturalmente bellezza, s’intrecciano per dar corpo (packaging) a una icona e in breve il flacone di profumo entra nei circuiti della distribuzione e del marketing virale. Un pezzo di sogno accessibile ma, soprattutto un reale business.
Il matrimonio tra industria dello spettacolo e della bellezza è un’unione interessante e di interesse; entrambe hanno molto da guadagnare, ecco perché di “star-parfumes” in futuro ne vedremo sempre di più.

Una delle prime celeb cui si deve una fragranza è la cantante e attrice Cher che nel 1987 lanciò Uninhibited, un profumo dall’aspetto sontuoso e decadente; Cher fece la presentazione alla stampa in abito stile “Cleopatra” e la foto pubblicitaria la ritraeva come una lasciva Salomè simbolista, una Cher peccatrice alla Franz von Stuck, metafora di un’essenza che si fa imbottigliare ma non trattenere, come enunciava il claim.
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Dopo quella di Cher ci furono Passion e White Diamond di Elizabeth Taylor ritagliati, ovviamente, sull’immagine di una Liz sfarzosa e della sua inesauribile passione per i gioielli. White Diamond ha un flacone molto femminile, prezioso e… brillante;
è stato un successo commerciale clamoroso e, a oggi, rimane uno dei profumi più venduti al mondo, un vero long seller.

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Dagli anni 2000 in poi è tutto un susseguirsi di novità profumiere e di “celeb-creations”: Jennifer Lopez, Britney Spears, David Beckham, Gwen Stefani, Antonio Banderas, Shakira, Bruce Willis, Beyoncè, Mariah Carey, Prince, One Direction, Rihanna, sono solo alcune delle celebrities che hanno avuto a che fare con il mondo delle fragranze.

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Nel 2010, in segno della sua passione per i gatti, la pop singer Katy Perry realizza “Purr” (il nome suonava come “profumo”, “perfetto”, e anche come “Perry”) il flacone, da lei stessa schizzato, è di vetro viola e a forma di amato felino, con occhi di diamante e dettagli di metallo. Per individuare la fragranza giusta erano state catturare e fuse assieme le note distintive degli aromi da lei preferiti, doveva essere la sua personificazione racchiusa in bottiglia. Visto il successo, Kate Perry ci riprova l’anno seguente con “Meow” ancora un profumo-gatto dal nome onomatopeico, la cui boccetta è uguale alla precedente, non più color viola ma di un perlescente rosa pallido. Nel 2013 finalmente la svolta, Kate abbandonata l’icona del gatto (e della gattina) e si rilancia come donna seduttiva e di potere.
La trasformazione è simboleggiata da “Killer Queen“, nuova essenza che prende il nome dal popolarissimo brano dei Queen scritto da Freddie Mercury. «Da quando ho 15 anni – dichiara la cantante – Killer Queen è nel mio vocabolario; il testo di Mercury racconta di una donna come avrei voluto essere io, magnetica, potente, che conquista tutti e finalmente, dopo tanto, mi sento proprio così» e per esprimere questa meravigliosa sensazione, la forma del flacone è un rosso rubino incastonato nell’oro, è il puntale di uno scettro che nella campagna pubblicitaria la regina Katy brandisce con orgoglio.

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Una delle popstar più appariscenti sia nella vita che per il design del suo iconico profumo è la rapper americana Nicki Minaj, che nel 2012 ha lanciato “Pink Friday” per esprimere l’inconfondibile stile della sua voce attraverso un’altra dimensione, quella olfattiva. Il flacone, progettato da Lance McGregor, è incredibilmente kitsch e autoreferenziale, rappresenta il mezzobusto della stessa cantante con la famosa parrucca rosa: impossibile restare indifferenti a tanta abbondanza formale e semantica, al fatale mix tra tecnologia di produzione, scultura e popculture.
Ma proprio per questo il profumo di Nikki possiede qualcosa di magnetico e accattivante.
L’ultimo, Minajesty, è del 2013, quanto a forza iconica non è da meno, il packaging mantiene lo stesso concept, lo statuario mezzo busto della Minaj ma con un nuovo look per la parrucca, il top e il corsetto. Se continua così viene voglia di cominciare una collezione!

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Non si può concludere senza citare i profumi delle popstar più note al mondo, quelle che con Michael Jackson hanno fatto dell’immagine la missione della loro vita (non solo mediale). Madonna e Lady Gaga.
È Truth or Dare la prima fragranza firmata da Madonna e trae ispirazione da una memoria olfattiva, l’odore di gardenia e tuberosa di sua madre. Un profumo che rievoca in lei qualcosa di nostalgico, primitivo e mistico. Con questo progetto Madonna conferma di voler dare di sé un’immagine sempre meno “material girl” e sempre più spirituale (ovviamente nel mix che le è tipico: religione cattolica, ebraismo e cabala, yoga, Opus Dei). Il flacone, disegnato da Fabien Baron, è bianco con logo e tappo d’oro, un tocco di preziosità che ricorda appena l’opulenza di certe chiese.

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Lady Gaga è una sperimentatrice estrema e neppure questa volta si smentisce.
Il suo primo profumo “Fame” (settembre 2012) rappresenta un passo avanti nella ricerca profumeria. Anzitutto la fragranza liquida è di un sorprendente colore nero che, a contatto con la pelle, diventa trasparente; la composizione del bouquet olfattivo, poi, al posto della tradizionale struttura piramidale (note di testa, di cuore e di fondo), utilizza l’innovativa tecnologia “push-pull”, in cui i vari odori interagiscono tra loro per esaltare, nello stesso momento e senza vincoli gerarchici, le caratteristiche di ciascuna nota.
La boccetta è stata disegnata in collaborazione con il fotografo Nick Knight e ha l’aspetto di una pozione magica aliena; il liquido nero del bulbo e il tappo che sembra un arpione d’oro ne fanno un oggetto misterioso e aggressivo. Poco prima del lancio commerciale circolava la voce che la popstar cercasse un profumo all’aroma di sangue e sperma, in seguito avrebbe dichiarato che, nonostante la fragranza fosse basata sulla struttura molecolare di queste sostanze – e in particolare sulla campionatura delle molecole del suo proprio sangue – non avrebbe avuto quell’odore (per fortuna!). Le provocazioni di Lady Gaga non sono mai gratuite comunque, e grazie anche al poderoso lancio commerciale e alla campagna pubblicitaria girata da Steven Klein, in una sola settimana “Fame” ha venduto 6 milioni di confezioni, diventando uno dei profumi più venduti al mondo nel giro di soli sette giorni.

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