Pack is (not) Dead


Dalla poltrona sottovuoto alla “supercaramella”, è morto il packaging contenitore di merci. Il suo posto ora appartiene ad un’invisibile, ma ancora più presente, interfaccia emozionale.

Maria Gallo

I protagonisti assoluti del nostro immaginario commerciale, gli imballaggi colorati, sensuali e attraenti, che trasformano gli scaffali dei supermercati in psichedeliche Wunderkammer, stanno subendo, ormai da alcuni anni, una lenta ma radicale trasformazione.
Un processo iniziato probabilmente già negli anni ’80 quando, sebbene in alcuni settori come la profumeria, ma non solo, l’imperativo fosse “stupire”, alcuni imballaggi lanciavano già dei timidi segnali di cambiamento. Di lì a poco infatti sarebbero nati i provocanti busti femminili in guêpière dei profumi di Jean Paul Gaultier. Contemporaneamente, l’Oréal lanciava la sua linea giovane di prodotti per i capelli, Studio Line, i cui contenitori, semplici e puliti nella forma, mostravano una grafica tanto colorata quanto minimalista, chiara citazione dei quadrati primari di Mondrian.

Ancora poco, certo, per parlare di inizio della fine, ma un’indicazione precisa sulla strada da percorrere: il packaging, che fino ad allora era stato un contenitore puramente funzionale delle merci, al massimo rivestito con una grafica più accattivante per “fare scena”, avrebbe dovuto ben presto trasformarsi in una sorta di sfera magica con cui mostrare al consumatore non certo il mondo reale (l’abbiamo già sotto i nostri occhi) ma il fantastico universo delle paradisiache sensazioni merceologiche. Una sorta di scioglilingua di immagini in cui perdersi, per lo meno fino al momento della loro metamorfosi in rifiuto.
Ogni prodotto ha seguito la sua strada, ma per molti di essi la morte dell’involucro è stata quasi una tappa obbligata nel processo di trasformazione.
Alcuni esempi piuttosto emblematici sono le bottiglie di profumo di Comme des Garçons: ovali in vetro chiaro, adagiati come sassi, chiusi da piccoli tappi neri e anonimi; i flaconi erano ermeticamente sigillati in buste trasparenti sottovuoto.
Oggi, a distanza di quasi cinque anni, la stessa bottiglia è rivestita con un candido abitino bianco lavorato all’uncinetto da cui partono anche un paio d’ali. Il “sasso” e il suo nuovo abito sono ancora strozzati nella confezione sottovuoto.

Apparente anonimato anche per le confezioni dei prodotti di Body Shop, Lush o Shu Uemura, che da alcuni anni vendono i loro saponi, creme, ombretti e ciprie in scatoline trasparenti, in flaconi e vasetti standard o addirittura “al chilo” cioè sfusi, come fino a quarant’anni fa accadeva per la pasta o lo zucchero.
Evidentemente, per alcune aziende, il valore del marchio e del mondo costruito intorno ad esso, è diventato più importante del singolo prodotto. Così il packaging-protagonista si è trasformato in packaging-strumento attraverso il quale il consumatore accede al mondo del brand. Insomma nell’era dell’accesso descritta da Jeremy Rifkin come la grande rivoluzione per cui, nella new economy, più che possedere un bene, sarà sempre più importante accedere a un servizio (sia esso l’abbonamento a un internet provider o un’automobile da usare per tre giorni al mese) sarebbe già iniziata da un po’ e noi non ce ne siamo accorti.

Già nel 1985 la vodka Absolut lanciava l’operazione che, da allora, coinvolge centinaia di artisti e designer di tutto il mondo per reinventare, all’infinito, la sua anonima bottiglia. In questo modo è nato una specie di network artistico a cui il consumatore partecipa non solo visitando le mostre itineranti, ma anche acquistando la vodka. Eppure oggi, questo emblematico prodotto, sta lanciando nuovi segnali. Nelle ultime pubblicità infatti la bottiglia è presente in tutta la sua “normalità” e con un’esposizione quasi asettica nella sua finta funzionalità, alcune didascalie, con relativa freccetta, spiegano al consumatore il significato di ogni scritta, simbolo o immagine presente sulla bottiglia. Citazione o inversione di tendenza? E’ troppo presto per dirlo.
Del resto “l’asettico” è una delle categorie più sfruttate negli imballaggi in marcia verso la trasformazione. Una categoria dalla presenza scenica tanto forte da ispirare persino la creazione di veri e propri imperi commerciali.
Marchi no-brand come Muji, la catena nipponica di negozi che vendono un po’ di tutto, dalla birra alle sedie all’abbigliamento, nata nel 1980 con lo slogan “tante buone ragioni per essere abbordabile”, impone come unica regola per essere “della famiglia” il minimalismo integralista della merce e, naturalmente, anche del packaging. Nata in Giappone, oggi Muji ha molti negozi anche a Londra e Parigi.
Il marchio Ikea può forse essere considerato uno degli antesignani del minimal-pack, per di più applicato ad un campo, come l’arredamento, che ha sempre avuto, a ragione, un rapporto poco amichevole con gli imballaggi in genere; obiettivamente però il suo minimalismo non è mai riuscito a diventare seduzione.
Al contrario c’è un pezzo storico dell’arredamento, la poltrona UP5 disegnata nel 1969 da Gaetano Pesce per B&B, il cui packaging primario, un film di PVC dentro cui l’imbottito era sigillato e compresso sottovuoto come un’enorme sottiletta, partecipava attivamente al progetto complessivo. Una volta aperto il grande sacchetto in PVC, l’aria rientrava lentamente tra le celle dell’espanso e la poltrona riprendeva corpo.
Il minimalismo, la riduzione di forma e materia, il sapiente utilizzo di particolari tecnologie, ad esempio un sottovuoto, diventano insomma metafore per la pelle dei prodotti che possono mostrarsi direttamente al consumatore oltrepassando il medium dell’imballaggio come era concepito in passato.
Lo stesso risultato si può raggiungere persino percorrendo la strada in maniera diametralmente opposta, come ha fatto la Nestlè con le caramelle Polo e con i mini Smarties. Si mostra qui infatti come il packaging possa morire anche per eccesso di presenza, per gigantismo informativo. Come accade nel racconto La lettera rubata di Edgar Allan Poe, in cui la lettera della Regina è “occultata” mettendola in bella mostra (l’imbarazzante documento viene “nascosto” collocandolo semplicemente là dove più lo si può vedere, tra altre innocenti missive), l’ipercaramella Polo in polipropilene bianco, che racchiude le piccolissime caramelline reali, scompare infatti ai nostri occhi come packaging e diventa un prezioso e seducente testimonial della filosofia del prodotto.
Difficile trovare qualcuno che abbia avuto il coraggio di buttare via questo piccolo/grande pezzo di pop art quotidiana.
Ma se le merci irrompono come corpi nel paesaggio commerciale, va da sé che finiranno col sottoporsi anch’esse alla dura legge della vita e della morte.
C’è qualcuno infatti che con la morte ha deciso di giocarci davvero, abbattendo finalmente uno dei massimi tabù merceologici. Parliamo del gruppo degli adbuster, quei sovversivi del commercio globale che, da qualche anno, tutti gli anni, organizzano i “no-buy day” come segno di protesta contro il consumismo imperante. L’involontario strumento di una delle loro campagne shock è stato il dromedario che da tanti anni, suo malgrado, promuove le sigarette Camel. In suo onore è stato creato un alter ego che, per la verità, non gode di ottima salute. Si tratta di Joe Chemo, diventato, appunto, uno dei protagonisti delle anti-campagne pubblicitarie inventate dagli adbuster. Come suggerisce il nome, nel manifesto compare il fumetto di un dromedario con delle flebo inserite nel corpo mentre girovaga, con lo sguardo spento, per i corridoi di un ospedale: l’immagine suggerisce che, dopo averne fumate tante, Joe Chemo ora sia gravemente malato e che si stia avvicinando la fine dei suoi giorni. E’ chiaro che la morte del dromedario segnerebbe, immediatamente, la morte di uno dei packaging più noti al mondo. Nell’ottobre del 2000, sul sito internet degli adbuster, si chiedeva di partecipare alla raccolta dei fondi per poter acquistare un grande spazio pubblicitario in cui affiggere il manifesto con Joe Chemo. Ma già allora s’era scatenata la battaglia legale da parte dei produttori delle sigarette. Non sappiamo se, a tutt’oggi, abbia vinto il mercato o la forza delle immagini.
La morte, comunque, prelude sempre all’inizio di qualcosa di nuovo, magari inatteso, ma non per questo orrorifico. Allora, più che accanirsi contro chi sceglie di dare voce a un dromedario di cartoncino, forse le aziende farebbero bene ad occuparsi delle mutazioni culturali se, anche in futuro, vorranno continuare a far parte, con le loro lattine, delle nostre fantasie quotidiane.

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