Sam ama Betty

“Sam loves Betty™”: è questo il romantico nome con cui debutta la startup  aglosassone Biocidetech, che produce formulazioni anti-insetti realizzate senza dannosi antiparassitari ma solo con sostanze biologiche e naturali. E il packaging? Va da sé che anch’esso debba essere puro e innocente, almeno all’apparenza.

Avere a che fare con zanzare, tarme, moscerini e scarafaggi… non è un bel lavoro. I prodotti ad essi collegati, insetticidi e lozioni varie, spesso sono contenute in packaging che per i colori, le immagini e la grafica manifestano espressamente concetti come guerra e repulsione: uccidere, sterminare, eliminare per sempre quegli orribili esseri repellenti che attentano alla nostra pelle.
Ma “Sam che ama Betty” non è cruento, non vuole eliminare gli insetti con le armi chimiche, preferisce usare solo quelle naturali, e non vuole glorificare la tossicità del prodotto.

Con l’aiuto del designer greco Yiannis Ghikas vengono quindi definite le linee guida che determineranno il packaging e l’immagine dei prodotti, “Non vogliamo che chi usa questi repellenti li getti subito via, percependoli come pericolosi per se stessi”; con questo diktat, in fase di progettazione è stata data assoluta importanza a parametri come la forma, il colore e la superficie.

Sam_loves_Betty_WEBI bianchi flaconi sono divisi in due aree, dove la parte superiore è predisposta ad accogliere tutte le indicazioni visive: il logo, le informazioni commerciali, gli ingredienti. L’insetto, protagonista di ogni formulazione, è rappresentato come se fosse ricamato a punto a croce, in modo stilizzato e grazioso.
Uno scarafaggio così, non può proprio fare schifo, potrebbe essere quello che da bambini vedevamo scorrazzare nel tinello della nonna, quindi, tutto sommato, innocuo. Ci possiamo rilassare.

Stiamo parlando di prodotti tecnologici ma non tossici, necessari ma non graditi, prodotti con un brutto passato, sempre nascosti alla vista, prodotti a cui a cui voler dare una nuova possibilità di godimento estetico.
Questa possibilità è offerta dalla parte inferiore del contenitore, leggermente più stretta facilita l’impugnatura ma  soprattutto funge da supporto per una decorazione floreale tridimensionale, sembra un tessuto avvoltovi attorno, con una trama da sfiorare e osservare che ricorda molto la lavorazione a grani tipica dei tessuti tradizionali sardi e allo stesso tempo i rilievi del braille.

Uno strano connubio tra tecnologia e tradizione, efficacia scientifica e merletti e crinoline, un progetto anomalo che un po’ disorienta ma anche intriga.

Ritorno alle origini

Perché non riscoprire il piacere di tenere fra le mani una saponetta profumata? La solidità di un oggetto che si scioglie pian piano tra le nostre dita, che possiamo stendere sulla pelle, come una carezza, che ci seduce con un packaging minimale ed effimero, ma molto elegante.

London Fields Soap Company è un’azienda dell’East London con l’ambizione di rilanciare, in epoca di detergenti innovativi, liquidi e cremosi, il classico sapone in barra di una volta. 
Per farlo si è affidata a One Darnley Road, giovane agenzia di creativi che ha lavorato su un’identità di marchio coerente con prodotti fatti a mano e sostenibili, artigianali e biologici ma che anche, per meglio rappresentare “l’estetica del pulito”, dovevano essere necessariamente belli.

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Tutti i prodotti di London Fields Soap Company sono realizzati in piccoli lotti, a chilometro zero, ad Hackney, East London. Gli ingredienti principali includono il tè e la menta piperita (ingredienti talmente buoni da essere commestibili, come sostiene la titolare dell’azienda, Tabitha Kleinert!).

Per il nuovo marchio, che doveva coniugare artigianalità e sensibilità moderna, ci si è ispirati alle tipiche atmosfere Art-Deco, alle sue grafiche (specialmente quelle dei tessuti) e ai suoi caratteri tipografici, resi però più contemporanei.

London_soap_01_WEBAnche per il packaging l’ispirazione è stata un esplicito riferimento alla tradizione locale: l’East End di Londra, infatti, vanta una lunga tradizione nel design e nella fabbricazione tessile. Basti citare, una tra tutti, la storica manifattura di seta e velluti Warner & Sons, che per oltre duecento anni ha prodotto meravigliose stoffe per la regina e i nobili di tutto il Regno Unito.

God save the soap.

“Mal d’Africa”

Cristina Simen ed Emanuela Sauve sono due decoratrici d’interni che dopo vari viaggi in Africa, contagiate da tanta bellezza, hanno voluto condividere la loro passione proponendo una collezione di oggetti e accessori decorati con motivi africani. Tra gli altri, anche flaconi, bottiglie, tetrabrick, confezioni varie che, anziché finire nella spazzatura… 
Una contaminazione che ci piace molto.

Cristina e Emanuela, vivono e lavorano tra Roma e Milano; la loro formazione professionale è quella tradizionale (finti marmi, finti legni, trompe l’oeil e tutto quello che riguarda la decorazione classica) appresa presso il prestigioso Institut Supérieur de Peinture Van der Kelen a Bruxelles.

Lì si sono conosciute e da una decina di anni collaborano in totale sintonia sviluppando idee e progetti e osando sperimentare anche su territori meno ortodossi.
 Come loro stesse ammettono l’ispirazione può nascere in qualunque momento e da qualunque contesto… una parete sbrecciata, un taglio di luce, un ferro arrugginito oppure, come in questo caso, da un viaggio, per esempio in Africa.

I colori, i disegni, le stoffe WAX – stampate con una speciale tecnica a cera – il fantasioso modo di riciclare oggetti poveri e destinati a esser buttati via, ha messo subito in moto il processo creativo che le ha spinte a ideare la collezione chiamata, appunto, AFRICA.
Subito sono stati dipinti set per la tavola, sottopiatti, sottobicchieri e centrotavola decorati come le stoffe africane che le avevano tanto affascinate; e poi tavolini/vassoi, piatti, borsette in legno leggero.

suavesimen_3_rossi_WEBInfine, la serie dei vasi ricavati da imballaggi di vario tipo: contenitori di plastica per detersivi o cartoni del latte, scelti con attenzione e poi decorati e verniciati.
Un nuovo vestito, semplice eppure di grande impatto, per impreziosire e dare una seconda vita a quello che solitamente buttiamo con troppa fretta nella spazzatura.

La prossima volta, pensateci bene, l’abito fa il monaco. Anche per il packaging.

Non di solo pane vive l’uomo

Sarà una provocazione o è solo un divertissement? Quale sottile filo logico lega un barattolo di caffè al marchio Cartier o un sacchetto di farina a Prada?

La mostra Wheat is Wheat is Wheat, attualmente al Museum of Craft and Design di San Francisco, cerca di indagare il ruolo del designer e quello del consumatore nell’epoca della compulsione “firmata” di massa.

Non si può dire che non suscitino curiosità le belle immagini dei packaging di cibi prosaici come salame, yogurt, caffè, latte, uova etc., abbigliati (è il caso di dirlo) con i marchi più amati dai modaioli di ogni dove – Prada, Gucci, Nike, Apple, Tiffany, LV – solo per citarne alcuni.

peddy_mergui_luxury_brand_food_350_webSono imballaggi di lusso, riconoscibili per grafica, colori, dettagli, ricostruiti ad hoc dall’artista e designer israeliano Peddy Mergui su prodotti convenzionali di largo consumo, e proprio per questo con il potere (il potere della marca!) di far sembrare più buono un salame, più raffinata la farina, più profumato il caffè.

Ma, oltre alla curiosità, cosa resta?

Come suggerisce lo stesso artista nel suo sito, Wheat is Wheat is Wheat lascerà con più domande che risposte.

 

 

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Il teschio di cristallo

Ispirandosi alla leggenda dei teschi di cristallo, l’attore Dan Aykroyd (ex Blues Brothers) e l’artista John Alexander hanno ideato la bottiglia di Crystal Head Vodka con il preciso intento di vestire con un packaging eccezionale una delle vodka più pure al mondo.

La vodka Crystal Head è famosa per gli ingredienti selezionati e di altissima qualità, senza nessun additivo è distillata quattro volte e filtrata sette. Negli ultimi tre passaggi viene purificata attraverso cristalli di quarzo di 500 milioni di anni, i rinomati “diamanti Herkimer”, ritrovati solo in pochissimi posti al mondo.
Questi cristalli di quarzo sono i più preziosi, limpidi e potenti di tutti quelli conosciuti; sembra che abbiano la capacità di irradiare e assorbire energia e che consentano di raggiungere elevate vibrazioni spirituali; a essi si attribuiscono potenti proprietà metafisiche e si dice che siano d’aiuto nei viaggi astrali perché collegano il piano cosmico con quello fisico.

Proprio di questo particolare tipo di cristallo di quarzo sono composti anche i misteriosi tredici teschi di cristallo di una popolare leggenda Maya, smentita ormai dal punto di vista scientifico, ma ancora molto coinvolgente e affascinante, da essere un fantastico spunto per fare dell’ottimo marketing.

Ed è proprio ispirandosi a questo mito che Aykroyd e Alexander hanno ideato una bottiglia di vetro a forma di teschio già diventata cult. Il prototipo è stato realizzato dalla vetreria milanese Bruni e l’intero processo di design è durato più di due anni e ha dovuto superare grandissime complessità, ma, a quanto pare, ne è valsa la pena.

crystal_50_rolling_webDopo aver conseguito un enorme successo commerciale, il “teschio di cristallo” è, infatti, stato scelto dai mitici Rolling Stones come vodka ufficiale per i festeggiamenti del loro 50° anno sul palcoscenico.
Crystal Head Vodka e Universal Music hanno dunque ideato un cofanetto in edizione limitata che si presenta come una teca con cerniera che riprende la copertina del leggendario album del 1971 Sticky Fingers. Al suo interno sono custoditi l’inconfondibile bottiglia-teschio, un tappo-gioiello con inciso il celebre logo dei Rolling Stones e due compilation di brani live registrati in esclusiva per questa particolare edizione.

Nel 2013 Crystal Head Vodka è stata premiata con la Medaglia d’oro al Salone Prodexpo di Mosca, battendo persino le migliori vodka russe.
Il teschio di cristallo sta decisamente portando fortuna.

Les Pet Petits. Nuovo artigianato sostenibile.

Questioni di design e ambientalismo. Ai manufatti in plastica e in particolare alle bottiglie per l’acqua minerale, vanno le maggiori accuse di “agenti inquinanti” se abbandonate nell’ecosistema. Ma qualcuno ha pensato a come ribaltare le cose e trasformare un difetto (in senso green ovviamente) – la durata pressoché infinita del PET – in un pregio: una serie di braccialetti molto cool, artistici e di lunga durata.

Wojciech Łanecki è un designer e imprenditore polacco il cui desiderio è quello di creare prodotti con una forte carica emotiva e portatori di valori quali: il rispetto per l’ambiente e per il lavoro manuale, la cura per la qualità artigianale nell’epoca della produzione di massa, l’attenzione alla sostenibilità.
I braccialetti Les Pet Petits rappresentano bene tutto questo, sono “gioielli” contemporanei di nuova concezione perché provenienti dal riutilizzo creativo di bottiglie di PET. lesPETpetit_e3ee_WEB

Sono oggetti, però, che non vogliono solo promuovere l’ecologia e il riciclo ma che aspirano anche ad essere desiderabili, glamour e alla moda. Per il loro minimalismo estetico derivato dal lavoro di giovani artisti, questi colorati e leggeri ornamenti, si adattano a tutti gli stili e outfit; sono disponibili in otto colori e due misure, e vengono realizzati  a mano con grande attenzione per la qualità.
Ogni pezzo è curato fin nei minimi dettagli, incluso il packaging che li contiene, una scatolina tonda i cui codici grafici e materici richiamano alla contemporaneità e allo spirito “green”.
Qualcosa di apparentemente lussuoso ma ad un prezzo molto, molto, democratico.
Come “sostenibilità” vuole.

Il mascara dietro le quinte

Un imballaggio deve sempre fare i conti con il prodotto che contiene, in particolare il packaging cosmetico. Ma cosa si nasconde dietro un semplice “battito di ciglia”?  Ce lo racconta Renato Ancorotti, presidente di Ancorotti Group, azienda leader in R&S che realizza make up e prodotti per la pelle per i più importanti marchi internazionali. Sonia Pedrazzini

Quali sono stati i suoi esordi nel mondo della cosmesi?
Ho cominciato con la produzione di make up nel 1984 fondando Gamma Croma.
Gli inizi sono stati avventurosi e intensi, quelli di una piccolissima azienda di tre persone. 
Nel 2008, quando ho venduto le mie quote, eravamo in 350 e la società era diventata il secondo player mondiale. Un anno dopo sono rientrato nel settore, dando vita con mia figlia Enrica alla Ancorotti Cosmetics. A differenza di Gamma Croma che produceva un po’ tutti i prodotti di make up, l’abbiamo specializzata nel mascara, il prodotto di make up in assoluto più difficile perché la combinazione di brush, packaging e formula deve essere bilanciata perfettamente. La formula, in particolare, è in questo caso talmente delicata che, senza le condizioni ottimali, facilmente si altera, perdendo i requisiti originali.

Pochi immaginano quanto lavoro e quanta professionalità ci sia dietro la produzione di un mascara. Come lavora Ancorotti Cosmetics e chi sono i principali clienti?
Senza fare nomi, possiamo affermare che il mascara più venduto in Europa lo produciamo noi, come pure il più venduto in Russia; abbiamo conquistato anche parte del mercato francese, notoriamente molto difficile. Affrontiamo tutte le fasce di mercato e vendiamo sia in Italia che all’estero. Dove i dazi doganali sono alti spediamo solo la formula che poi viene confezionata in loco. In altri casi, il cliente ci fornisce il pack che poi riempiamo con il nostro prodotto e lo mettiamo sul mercato. 
La tendenza comunque sarà sempre più quella di offrire un “full service”, chiedendo addirittura al cliente che vuole acquistare solo il bulk, di fornirci alcuni campioni del packaging in modo da testarlo assieme alla formula. Questo, per essere sicuri che il prodotto che gli forniremo sia conservato nel packaging più adeguato.
Non è detto, infatti, che la miglior formulazione e il miglior imballaggio, messi assieme, alla fine diano il miglior mascara. Per ogni tipo di formulazione ci sarà dunque uno specifico pennello – la cui fibra andrà commisurata alla viscosità e alla densità del mascara – un determinato riduttore che stabilirà la quantità che deve fuoriuscire e persino il materiale dell’imballaggio dovrà essere calibrato con attenzione ed essere compatibile con la stabilità della formula.

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Parlando di packaging cosmetico, cosa la affascina di più in una confezione?

Oggi quello che mi colpisce è soprattutto la qualità; ma anche la capacità di quanti, in un settore come il nostro, riescono a fare oggetti nuovi senza tuttavia alterare il rito, la gestualità del truccarsi. Il mascara, ad esempio, lo apri e lo usi in un certo modo, da sempre; cambiare questi gesti mi sembra impossibile. Pensando al packaging, vorrei che fosse importante e di peso, fatto di materiali moderni e sensoriali capaci di trasmettere preziosità, valore, emozione. Stendere il mascara sulle ciglia per molte donne è diventato un gesto quotidiano, così come usare i prodotti per la cura del corpo, dal sapone, al dentifricio, alle creme… La cosmesi insomma gioca un ruolo “sociale” nella nostra vita e dietro tutto questo c’è la complessità tecnica, la ricerca e la cultura aziendale: fattori questi poco percepiti ma che, per me, sono i più intriganti.

Quali suggerimenti darebbe a un packaging designer e a un’azienda che produce imballaggio cosmetico?
Il designer deve anzitutto conoscere a fondo il settore per cui sta disegnando; deve avere nozioni tecniche, conoscenza dei materiali e delle lavorazioni, ma anche l’umiltà di  sedersi a un tavolo con l’azienda e i suoi tecnici per sviluppare il prodotto secondo i giusti limiti imposti dalla fattibilità.
L’azienda, dal canto suo, deve in primo luogo assicurare che il prodotto rispetti tutti i parametri della qualità. E mostrare più attenzione verso il mondo del design, spesso considerato vacuo: sono sicuro che se designer di grande spessore lavorassero con il settore cosmetico avremmo delle belle sorprese.

Ancorotti_fill_service_WEB_okSi dice tanto “Made in Italy”. Come siamo percepiti all’estero per quanto riguarda la cosmesi?
Negli ultimi anni il valore della nostra immagine è cresciuto molto. L’Italian Style è percepito bene, non solo nel food, nella moda e nel design, ma anche nel cosmetico. Forse non tutti sanno che il 70% del make up mondiale in outsourcing è prodotto in Italia, e che siamo una grande eccellenza, soprattutto in questa zona della Lombardia. 
Produrre in Italia è certamente la condizione necessaria perché un prodotto sia Made in Italy ma non è più sufficiente: è necessario che il prodotto sia realizzato secondo determinate caratteristiche. Il cliente estero si aspetta da noi grande qualità, come quella della Ferrari e del Brunello Cucinelli per intenderci, ma alla dicitura Made in Italy è necessario aggiungere un plus, una sorta di certificazione che garantisca il livello e la qualità della produzione italiana.

E quali sono, secondo lei, le “eccellenze” nel settore cosmetico da far conoscere meglio anche a noi italiani? 
Dario Ferrari, presidente e fondatore di Intercos, è sicuramente il riferimento di questa eccellenza. Questa azienda è la numero uno al mondo, un vero e proprio riferimento nella ricerca e sviluppo prodotto che ha saputo offrire ai clienti soluzioni di marketing e di prodotto innovative e di altissima qualità. 
In Italia il contoterzista non è più un mero esecutore, un semplice fornitore, ma fa ricerca all’avanguardia. È bene sapere che moltissimi dei prodotti più esclusivi oggi sul mercato, magari con marchi di prestigio, sono concepiti e nati in Italia.

Con la fondazione di Ancorotti Cosmetics India, lei ha fatto un deciso salto di scala. Di cosa si occupa questo dipartimento?
Rispetto ai mercati occidentali, quali sono le maggiori difficoltà? 
È un dipartimento creato per soddisfare i mercati emergenti di India e Asia e produce cosmetici in loco formulati su bisogni specifici. Siamo partner di società indiane al 50%, così da avere il polso della situazione e sapere, ad esempio, quali sono i prodotti che si vendono meglio in quella parte del mondo, che sono oggi quelli per le labbra. Il mascara è, infatti, ancora poco utilizzato dalle donne indiane, che lo stanno scoprendo adesso. Si tratta di un mercato complesso e in continua evoluzione, non solo dal punto di vista prettamente industriale ma anche per la sensibilità del pubblico verso la cosmesi. 
Per certo uno dei più grandi problemi è affrontare la burocrazia indiana, molto più complessa della nostra, il che è tutto dire, e con tempi lunghissimi.

La produzione delle formulazioni avviene direttamente in India?
Al momento le prepariamo in Italia e le trasferiamo in India, ma stiamo formando e seguendo dei tecnici per rendere i nostri partner autonomi e portarli a realizzare un prodotto di buona qualità. Produrre in India, per noi, significa lasciare un’eredità importante a quel territorio, ovvero la nostra esperienza e il nostro sapere, che verranno messi a frutto da un’azienda  locale creata per quel mercato. Ma, sia chiaro, non delocalizzeremo mai le nostre aziende italiane.

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E, infatti, il suo desiderio di valorizzare il territorio italiano e vederne implementate le forze produttive, si esprime chiaramente anche nella promozione del “Polo della Cosmesi”. Ci spieghi di cosa si tratta.


In questo momento in Italia c’è una grande crisi e non vedo segni di ripresa. Credo che la  situazione sia molto critica anche perché la nostra economia si basa in prevalenza su piccole e medie imprese, spesso impreparate ad affrontare crisi come quella in cui ci troviamo. In questo contesto, “fare sistema” mi sembra quindi l’unico toccasana: quando i piccoli imprenditori e gli artigiani si coalizzano e fanno filiera, possono ottenere molto. Ma non basta, devono anche guardare all’estero, devono trovare la forza di promuovere i loro prodotti a livello internazionale, dato che non si può dimenticare di vivere in un sistema globalizzato e interconnesso. 
Il Polo della Cosmesi si è strutturato nel 2006, proprio con l’idea di mettere insieme le aziende del territorio cremasco che si occupano di make up e confezionamento. Duplice l’obiettivo, anche ambizioso: unire le forze per fare ricerca e sviluppo e darsi un codice etico. Nella filiera, infatti, tutti devono crescere, non solo in fatturato ma anche con le certificazioni, con la qualità, soprattutto con la formazione, così da poter contare su tecnici ed esperti che parlino un linguaggio comune e che abbiano conoscenze molto specifiche. A tal proposito da gennaio, è partito a Crema il primo corso di “Tecnico di industrializzazione del prodotto e del processo” ideato da Sogecos e Ancorotti SpA, in collaborazione con l’Istituto Galilei di Crema, finalizzato alla formazione di tecnici da inserire poi nelle aziende del territorio.

“Ti amo Italia”

Basta piangersi addosso, lamentarsi sempre, svalutare le nostre meraviglie.
Siamo un popolo strano, fatto di genio e sregolatezza, di furbetti e di eccellenze, e in mezzo tanta bellezza. Siamo italiani, siamo così.

Diamoci una mossa e apriamo gli occhi, la crisi c’è e non passerà presto ma una delle nostre migliori qualità è il saperci reinventare.
Su la testa, tiriamo fuori il nostro orgoglio, “Ti amo Italia”… lo dice anche il packaging.

È una bella dichiarazione d’amore quella che Collistar esprime con una capsule collection disegnata da Antonio Marras e caratterizzata da nuance che si ispirano al nostro Paese e ai suoi luoghi simbolo; a suggerire la palette dei colori di rossetti, ombretti, gloss e terre ci pensano infatti le atmosfere di città come Venezia, Milano, Verona, Roma, Siracusa.

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A livello grafico, il fil rouge che percorre tutto il progetto è il tipico segno dello stilista sardo, sotto forma, questa volta, della silhouette di un volto di donna, elegante, essenziale, poetico e che sembra ispirato ai profili senza tempo del grande Modigliani. collistar_bazzani12_web

Interessante è la riuscitissima integrazione tra disegno (l’occhio della donna) e marchio, la “c” simbolo di Collistar, che, assieme all’utilizzo del rosso rubio – il colore identificativo di Marras – per dipingere la bocca della donna, rappresentano il connubio saldo ma discreto tra due marchi del “bel” Made in Italy.

Replicanti (olfattivi) di ricordi

Calvi, 1972. Una passeggiata estiva sulle rive dell’Oceano.
Santa Monica,1994. Effluvi di dolciumi, cremosi e avvolgenti.
Parigi, 2011. Mercato dei fiori.
Firenze, 2003. Una pigra domenica mattina.
Oxfordshire, 1986. Passeggiata nei giardini.
Brooklyn, 2013. Serata al Jazz Club.
Sei fragranze (e relativo packaging) progettate per evocare i ricordi più intensi: è il vintage contemporaneo di Margiela.

I profumi della collezione Replica della Maison Martin Margiela sono pensati per imprigionare ricordi ed emozioni.
Creati dal profumiere Jaques Cavallier, sono stati studiati per evocare istantaneamente memorie, immagini ed impressioni vissute dalla maggior parte di noi, come il Lazy Sunday Morning, che con il suo accordo di muschio bianco sa di bucato pulito e lenzuola di lino, o come il Promenade in the Garden, un profumo fiorito ispirato a una passeggiata nei giardini inglesi o ancora il Jazz Club, la prima della serie dedicata all’uomo, un cocktail di rum, vetiver e foglie di tabacco.

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Le fragranze sono racchiuse in un flacone la cui silhouette si ispira alle fiale da laboratorio dei farmacisti di un tempo, e sono narrate da un’etichetta in cotone, su cui è riportato il dove/come/quando della fragranza: tutte le informazioni tecniche e poetiche necessarie per meglio assaporare l’atmosfera intrappolata nella boccetta.

Le stesse indicazioni appaiono anche sull’astuccio di cartone, dove campeggia anche una fotografia, lo scatto di un istante particolare, quello che ha determinato la storia di ogni profumo.

Il progetto Replica si è esteso alla mostra #smellslikememories, raccolta di lavori fotografici di artisti provenienti da tutto il mondo, che hanno fermato su pellicola i propri ricordi sensoriali e olfattivi e sta continuando anche sulla piattaforma digitale replicafragrances.tumblr.com.

Per chi vuole cimentarsi, ricordi olfattivi (e foto) cercasi disperatamente.

Pump up the Parfum

Se vuoi esser una vera pop star e farti ricordare per sempre dai tuoi fan, non puoi non avere il tuo profumo. Le Celeb come Madonna, Lady Gaga, Nicki Minaj si rilanciano con il beauty e il packaging diventa un’arma di seduzione di massa.

Sonia Pedrazzini

Nel mercato dell’immagine globale le fragranze delle “celebrities” sono un fenomeno in crescita. I profumi non sono più unicamente il frutto di appassionata ricerca da parte di storiche maison della bellezza bensì veri e propri oggetti per fare branding o per comunicare marchi quando non addirittura persone, anzi, “celebrities”: pop star, stelle del cinema, modelle e socialite, che creano il loro profumo personale, un oggetto che offrendo emozioni, sensazioni visive e olfattive, rappresenti l’essenza mediatica del loro personaggio.
Soprattutto nel caso delle fragranze delle popstar spesso il packaging è esagerato, persino brutto, tuttavia non è quasi mai banale perché incarna il look, lo stile, il gusto estetico di questo o quel personaggio, una sorta di accessorio-feticcio per la gioia dei fan, da guardare, toccare, odorare.

Per consolidare l’immaginario del pubblico, i profumi delle popstar sono lanciati sul mercato sempre accompagnati da una storia, un video, una canzone. La campagna pubblicitaria è firmata da grandi nomi della creatività internazionale, fotografi e registi cooperano per realizzare un prodotto perfetto sotto tutti i punti di vista; musica, video, grafica, design, moda e naturalmente bellezza, s’intrecciano per dar corpo (packaging) a una icona e in breve il flacone di profumo entra nei circuiti della distribuzione e del marketing virale. Un pezzo di sogno accessibile ma, soprattutto un reale business.
Il matrimonio tra industria dello spettacolo e della bellezza è un’unione interessante e di interesse; entrambe hanno molto da guadagnare, ecco perché di “star-parfumes” in futuro ne vedremo sempre di più.

Una delle prime celeb cui si deve una fragranza è la cantante e attrice Cher che nel 1987 lanciò Uninhibited, un profumo dall’aspetto sontuoso e decadente; Cher fece la presentazione alla stampa in abito stile “Cleopatra” e la foto pubblicitaria la ritraeva come una lasciva Salomè simbolista, una Cher peccatrice alla Franz von Stuck, metafora di un’essenza che si fa imbottigliare ma non trattenere, come enunciava il claim.
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Dopo quella di Cher ci furono Passion e White Diamond di Elizabeth Taylor ritagliati, ovviamente, sull’immagine di una Liz sfarzosa e della sua inesauribile passione per i gioielli. White Diamond ha un flacone molto femminile, prezioso e… brillante;
è stato un successo commerciale clamoroso e, a oggi, rimane uno dei profumi più venduti al mondo, un vero long seller.

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Dagli anni 2000 in poi è tutto un susseguirsi di novità profumiere e di “celeb-creations”: Jennifer Lopez, Britney Spears, David Beckham, Gwen Stefani, Antonio Banderas, Shakira, Bruce Willis, Beyoncè, Mariah Carey, Prince, One Direction, Rihanna, sono solo alcune delle celebrities che hanno avuto a che fare con il mondo delle fragranze.

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Nel 2010, in segno della sua passione per i gatti, la pop singer Katy Perry realizza “Purr” (il nome suonava come “profumo”, “perfetto”, e anche come “Perry”) il flacone, da lei stessa schizzato, è di vetro viola e a forma di amato felino, con occhi di diamante e dettagli di metallo. Per individuare la fragranza giusta erano state catturare e fuse assieme le note distintive degli aromi da lei preferiti, doveva essere la sua personificazione racchiusa in bottiglia. Visto il successo, Kate Perry ci riprova l’anno seguente con “Meow” ancora un profumo-gatto dal nome onomatopeico, la cui boccetta è uguale alla precedente, non più color viola ma di un perlescente rosa pallido. Nel 2013 finalmente la svolta, Kate abbandonata l’icona del gatto (e della gattina) e si rilancia come donna seduttiva e di potere.
La trasformazione è simboleggiata da “Killer Queen“, nuova essenza che prende il nome dal popolarissimo brano dei Queen scritto da Freddie Mercury. «Da quando ho 15 anni – dichiara la cantante – Killer Queen è nel mio vocabolario; il testo di Mercury racconta di una donna come avrei voluto essere io, magnetica, potente, che conquista tutti e finalmente, dopo tanto, mi sento proprio così» e per esprimere questa meravigliosa sensazione, la forma del flacone è un rosso rubino incastonato nell’oro, è il puntale di uno scettro che nella campagna pubblicitaria la regina Katy brandisce con orgoglio.

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Una delle popstar più appariscenti sia nella vita che per il design del suo iconico profumo è la rapper americana Nicki Minaj, che nel 2012 ha lanciato “Pink Friday” per esprimere l’inconfondibile stile della sua voce attraverso un’altra dimensione, quella olfattiva. Il flacone, progettato da Lance McGregor, è incredibilmente kitsch e autoreferenziale, rappresenta il mezzobusto della stessa cantante con la famosa parrucca rosa: impossibile restare indifferenti a tanta abbondanza formale e semantica, al fatale mix tra tecnologia di produzione, scultura e popculture.
Ma proprio per questo il profumo di Nikki possiede qualcosa di magnetico e accattivante.
L’ultimo, Minajesty, è del 2013, quanto a forza iconica non è da meno, il packaging mantiene lo stesso concept, lo statuario mezzo busto della Minaj ma con un nuovo look per la parrucca, il top e il corsetto. Se continua così viene voglia di cominciare una collezione!

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Non si può concludere senza citare i profumi delle popstar più note al mondo, quelle che con Michael Jackson hanno fatto dell’immagine la missione della loro vita (non solo mediale). Madonna e Lady Gaga.
È Truth or Dare la prima fragranza firmata da Madonna e trae ispirazione da una memoria olfattiva, l’odore di gardenia e tuberosa di sua madre. Un profumo che rievoca in lei qualcosa di nostalgico, primitivo e mistico. Con questo progetto Madonna conferma di voler dare di sé un’immagine sempre meno “material girl” e sempre più spirituale (ovviamente nel mix che le è tipico: religione cattolica, ebraismo e cabala, yoga, Opus Dei). Il flacone, disegnato da Fabien Baron, è bianco con logo e tappo d’oro, un tocco di preziosità che ricorda appena l’opulenza di certe chiese.

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Lady Gaga è una sperimentatrice estrema e neppure questa volta si smentisce.
Il suo primo profumo “Fame” (settembre 2012) rappresenta un passo avanti nella ricerca profumeria. Anzitutto la fragranza liquida è di un sorprendente colore nero che, a contatto con la pelle, diventa trasparente; la composizione del bouquet olfattivo, poi, al posto della tradizionale struttura piramidale (note di testa, di cuore e di fondo), utilizza l’innovativa tecnologia “push-pull”, in cui i vari odori interagiscono tra loro per esaltare, nello stesso momento e senza vincoli gerarchici, le caratteristiche di ciascuna nota.
La boccetta è stata disegnata in collaborazione con il fotografo Nick Knight e ha l’aspetto di una pozione magica aliena; il liquido nero del bulbo e il tappo che sembra un arpione d’oro ne fanno un oggetto misterioso e aggressivo. Poco prima del lancio commerciale circolava la voce che la popstar cercasse un profumo all’aroma di sangue e sperma, in seguito avrebbe dichiarato che, nonostante la fragranza fosse basata sulla struttura molecolare di queste sostanze – e in particolare sulla campionatura delle molecole del suo proprio sangue – non avrebbe avuto quell’odore (per fortuna!). Le provocazioni di Lady Gaga non sono mai gratuite comunque, e grazie anche al poderoso lancio commerciale e alla campagna pubblicitaria girata da Steven Klein, in una sola settimana “Fame” ha venduto 6 milioni di confezioni, diventando uno dei profumi più venduti al mondo nel giro di soli sette giorni.

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