La vorresti una borsa così?

borsa_mudac_01

Sempre e ovunque presenti, tra luci e ombre, le buste di plastica sono l’ultimo simbolo della nostra società globalizzata. Ora anche in un museo. Shopping bag come non si erano mai viste, tra arte, sostenibilità e design una mostra che induce alla riflessione.

Quella che si è appena conclusa al mudac – musée de design et d’arts appliqués contemporains di Losanna è una mostra che, contrapponendo storie di vita quotidiana con l’arte e il design, ci rivela come l’umile shopping bag possa diventare anche oggetto del desiderio.
Composta da una trentina di opere, l’esposizione riunisce designer e artisti internazionali e mette in evidenza la storia – le storie – del sacchetto di plastica attraverso la lente della cultura, dell’estetica e della politica.
Packaging di culto o spazzatura, riverita o disprezzata, la busta di plastica (per i romagnoli “sportina”), divide le opinioni e rivela il comportamento consumistico di chi la sta usando.

Se da un lato per i contenuti grafici e comunicativi e per la sua forza iconica può rafforzare il nostro status o la nostra identità, dall’altro, il suo utilizzo smodato e improprio (specialmente per quanto riguarda lo smaltimento) causa problematiche di degrado ambientale che non possono più essere ignorate.

E così, grazie a cortometraggi e dibattiti sulle alternative possibili e sull’evoluzione dei materiali, e attraverso installazioni, sculture, fotografie, dipinti e oggetti – non solo opere contemporanee ma anche pezzi provenienti da collezioni private svizzere, come la borsa di Joseph Beuys realizzata nel 1972 per l’installazione Büro für Direkte Demokratie durch Volksabstimmung a Documenta Kassel – questa mostra, originale e ben costruita, ha saputo proporre un’indagine critica e approfondita su un imballaggio tanto banale quanto impossibile da ignorare.

 1- View of the exhibition "Would You Like A Bag With That" ? Photograph © David Gagnebin-de Bons
 2- Andreas Blank, Untitled, 2011, albâtre et marbre, 96.5 x 40x 32.5 cm Photographie © Michael Lio
 3- Baptiste Debombourg et David Marin, Marx, 2013, sac plastique doré à la feuille d'or 24 carats, 40 x 25 x 25cm. Courtesy Galerie Patricia Dorfmann, Paris
 4- Joseph Beuys, Bureau pour la démocratie directe par le vote populaire, Documenta Kassel, 1972. Coll. Ida-Marie Corell
 5- Iskender Yediler, ALDIPLUSLIDL, 1998, sacs en plastique et sèche-cheveux. © Iskender Yediler
 6-Jeremy Scott, collection Boudoir Bombshell, prêt-à-porter printemps-été 2011 Photographie © Randy Brooke
 7-Jet Set © Coll. Museum für Gestaltung Zürich. Designsammlung. Zürcher Hochschule der Künste.
 8-© Jörger-Stauss
 9- Marie-Claire Baldenweg, Art Basel / Miami Beach, 2010, huile sur toile, 160 x 160 cm. © Marie-Claire Baldenweg
 10- Ruben Verdu, Louis Vuitton Trash Bag, 2004, sérigraphie sur sac en plastique, 58 x 54 cm © Ruben Verdu
 11 - HendrikKerstens, Bag2007

Ciack si gira: Bozzetti e Rossetti

Giovani promesse del fashion “vestono” la collezione trucco ufficiale della Mostra del Cinema di Venezia tra red carpet, photocall e night première.

ciack_laguna_01

Lagune Extase è la limited edition che L’Oréal Paris – per la sesta volta sponsor e make-up ufficiale della Mostra del Cinema di Venezia – ha dedicato all’edizione 2013. Una collezione di rossetti, mascara e smalti il cui packaging è firmato da quattro emergenti e talentuosi fashion designer, selezionati per l’occasione da Vogue Italia.

ciack_laguna_03

Ad Angelos Bratis, Barbara Casasola, Marta Ferri e Stella Jean è toccato dunque il compito di interpretare quattro look ispirati agli appuntamenti principali che vedono impegnata una star durante la Mostra del Cinema e di “rivestire” i flaconi da trucco con i bozzetti delle loro creazioni uniche ed esclusive.
Per il “Red Carpet”, Barbara Casasola ha ideato un look da sirena contemporanea e sensuale da indossare con labbra rosso vivo e a contrasto mani dalle unghie bianche.
Per la “Night Première”, invece, Angelos Bratis ha proposto una donna lunare, elegante, quasi eterea, opposta all’immagine solare ed allegra che Stella Jean – il cui stile, personalissimo, riflette la sua héredité creola – ha suggerito nel look ideato per il “Social Party”.

ciack_laguna_02

Infine, la stilista Marta Ferri ha interpretato il “Photocall” – momento in cui le star si dedicano ai flash dei fotografi – con grande freschezza e un pizzico di romanticismo.

I piccoli flaconi istoriati parlano da sé: graziosi souvenir da sfilata, sono miniature tridimensionali che raccontano il sogno della moda e fa effetto vedere come poi le sinuose figurine disegnate dai quattro fashion designer abbiano davvero preso vita e sfilato in passerella.

Un motivo in più per collezionare questi packaging unici. Sempre ammesso di trovarli ancora.

Non c’è trucco non c’è inganno

Il trucco non mente quasi mai, anche se inganna sempre

La parola “trucco” nasconde un significato sinistro e fuorviante. Essa rimanda a una procedura ingannevole, a una mistificazione, ci fa intendere che c’è una verità autentica, una realtà, al di sopra della quale viene stesa una sorta di maschera con lo scopo di nascondere le imperfezioni del reale e di contribuire a migliorare l’aspetto del soggetto, falsificandolo. A causa di questo, che io ritengo una sorta di retaggio cattolico, il nostro atteggiamento nei confronti della cosmesi resta profondamente ambivalente: da una parte ne rimaniamo soggiogati ed affascinati, dall’altra la consideriamo una sorta di camuffamento che nasconde il vero Sé del soggetto dallo sguardo degli altri, un segno di debolezza, trasmesso attraverso un’impropria dimostrazione di forza.
Le cose tuttavia non sono affatto così semplici: basterà poco per accorgersi che questo vero Sé che starebbe sotto la maschera è esso stesso una finzione e una mascheratura (un po’ come, nell’agricoltura biologica, il frutto “vero e naturale” sembra contrapporsi al frutto “finto ed artificiale” prodotto attraverso il trucco dei pesticidi e dei conservanti chimici ma, in realtà, sappiamo benissimo che il processo di produzione cosiddetto biologico è anch’esso basato su una serie di tecniche e di procedure che devono portare il prodotto a prestarsi alla grande distribuzione e che l’uso del termine “autentico” è qui fortemente discutibile, tanto più dopo che molti scandali hanno messo in luce la falsità di alcune produzioni che si fregiavano dell’etichetta biologica). Che cosa sarebbe infatti questo vero Sé del soggetto? Freud sostiene che noi perveniamo ad una definizione di noi stessi (rispondiamo alla domanda “chi sono io?”) solo attraverso una serie di identificazioni successive, come se, per sapere chi siamo, dovessimo semplicemente mostrare la gallery fotografica di tutte le persone che abbiamo incontrato, amato, odiato, desiderato ed invidiato fin dalla nostra infanzia; una gallery dalla quale non sono ovviamente escluse le persone immaginarie: gli attori dei film, le pop star, gli idoli televisivi con i quali ci siamo identificati. Ecco: noi siamo la sommatoria di una serie di immagini portate dentro di noi, siamo questa sommatoria in un modo tutto nostro e magari originale, ma siamo appunto questa pluralità di soggetti psichici differenti all’interno dei quali è semplicemente stupido chiedere quale sia quello autentico.
Se le cose stanno così allora qual è il compito svolto dal trucco? Cosa otteniamo truccandoci? Semplicemente decidiamo di far vivere per un certo lasso di tempo una delle tante “persone psichiche” che compongono la nostra identità, la facciamo vivere perché essa svolga il suo compito che può essere tanto quello di suscitare ammirazione e desiderio (come accade nella nostra raffinata società occidentale) quanto quello di segnalare un’intenzione aggressiva o un intento minaccioso come accadeva in alcune società tradizionali.
Non appena l’intento seduttivo o quello minaccioso vengono meno, anche la personalità suscitata può ritornarsene in buon ordine al suo posto in mezzo alle altre senza bisogno che essa appaia come prevalente.
Così, allora, il trucco non mente quasi mai, anche se inganna sempre.
Non mente perché rispecchia sempre un aspetto del soggetto; inganna sempre perché ipostatizza questo aspetto facendo sì che esso prevalga su tutti gli altri e dando la falsa illusione che esso sia l’unico.
Il guerriero non è solo guerriero ma anche contadino, padre, etc. la donna non è solo femme fatale ma anche madre, casalinga, compagna, etc. Tuttavia, anche questo non basta per dirci cosa significhi veramente oggi truccarsi e, soprattutto, se questa operazione sia ancora possibile: se è vero infatti che il trucco non è una semplice falsificazione da contrapporre alla verità, ma rappresenta sempre e soltanto una delle possibilità del soggetto che si trucca, bisogna anche aggiungere che questa operazione per avere senso deve essere socialmente codificata. Non c’è niente che meglio del trucco rappresenti l’ordine simbolico di appartenenza, non c’è niente di meno esportabile, e non c’è niente di più caratterizzante. Ed in effetti il maquillage, a differenza dell’opera d’arte, non può nutrirsi semplicemente dell’energia creativa del soggetto, ma deve trarre la sua fonte di ispirazione principale da una serie di esperienze ben codificate, ci si trucca seguendo un modello definito e l’abilità della messa in atto si misura sulla base dell’efficacia sociale che esso dimostra. Il trucco è cioè una pratica simbolica e non immaginaria. Si comprende bene tutto questo quando si riflette su come sia facile per chiunque registrare la pacchianeria di un trucco eccessivo, come se ognuno di noi possedesse a questo riguardo un canone estetico ben definito ed assolutamente rigoroso. Nel trucco, come in nessuna altra cosa, non è bello ciò che piace ma ciò che risponde a delle precise esigenze sociali. La sua efficacia seduttiva dipende dalla cultura di appartenenza: i trucchi delle donne appartenenti a società primitive sono per noi mostruosi ma affascinano i membri di quelle stesse società, e l’esperienza non è mai esportabile.
La femme fatale e il guerriero, appartengono a dei modelli prodotti da un sistema culturale cui il soggetto si ispira quando decide di truccarsi, ma cosa succede quando questi modelli smettono di esistere? Quando il sistema sociale non offre più punti di riferimento che non siano obversi (che non rappresentino altro che lo sguardo stesso del soggetto)? Succede che truccarsi diventa impossibile perché non esiste più alcun sistema codificato di riferimento, perché non si sa più cosa dire, quali sentimenti suscitare e a chi rivolgersi. Succede che si passa dal trucco al non-trucco, dalla comunicazione seduttiva alla seduzione della non-comunicazione. Va perduta la distinzione di genere e il volto del soggetto non rimane vuoto o senza trucco ma si lascia coprire da una serie di tracce misteriose il cui mistero deriva dal fatto che sono come un linguaggio senza codice, una serie di immagini senza senso, come nel dripping di Pollock: c’è ancora un quadro ma è un non-quadro, di cui permane soltanto il gesto – come se si scrivessero ideogrammi incomprensibili per il puro gusto di lasciare un segno sulla carta.

Antonio Piotti, psicologo,ha pubblicato (con M. Senaldi) Lo Spirito e gli Ultracorpi, Franco Angeli 1999 e Maccarone m’hai Provocato, Bulzoni, 2002.

Pack is (not) Dead


Dalla poltrona sottovuoto alla “supercaramella”, è morto il packaging contenitore di merci. Il suo posto ora appartiene ad un’invisibile, ma ancora più presente, interfaccia emozionale.

Maria Gallo

I protagonisti assoluti del nostro immaginario commerciale, gli imballaggi colorati, sensuali e attraenti, che trasformano gli scaffali dei supermercati in psichedeliche Wunderkammer, stanno subendo, ormai da alcuni anni, una lenta ma radicale trasformazione.
Un processo iniziato probabilmente già negli anni ’80 quando, sebbene in alcuni settori come la profumeria, ma non solo, l’imperativo fosse “stupire”, alcuni imballaggi lanciavano già dei timidi segnali di cambiamento. Di lì a poco infatti sarebbero nati i provocanti busti femminili in guêpière dei profumi di Jean Paul Gaultier. Contemporaneamente, l’Oréal lanciava la sua linea giovane di prodotti per i capelli, Studio Line, i cui contenitori, semplici e puliti nella forma, mostravano una grafica tanto colorata quanto minimalista, chiara citazione dei quadrati primari di Mondrian.

Ancora poco, certo, per parlare di inizio della fine, ma un’indicazione precisa sulla strada da percorrere: il packaging, che fino ad allora era stato un contenitore puramente funzionale delle merci, al massimo rivestito con una grafica più accattivante per “fare scena”, avrebbe dovuto ben presto trasformarsi in una sorta di sfera magica con cui mostrare al consumatore non certo il mondo reale (l’abbiamo già sotto i nostri occhi) ma il fantastico universo delle paradisiache sensazioni merceologiche. Una sorta di scioglilingua di immagini in cui perdersi, per lo meno fino al momento della loro metamorfosi in rifiuto.
Ogni prodotto ha seguito la sua strada, ma per molti di essi la morte dell’involucro è stata quasi una tappa obbligata nel processo di trasformazione.
Alcuni esempi piuttosto emblematici sono le bottiglie di profumo di Comme des Garçons: ovali in vetro chiaro, adagiati come sassi, chiusi da piccoli tappi neri e anonimi; i flaconi erano ermeticamente sigillati in buste trasparenti sottovuoto.
Oggi, a distanza di quasi cinque anni, la stessa bottiglia è rivestita con un candido abitino bianco lavorato all’uncinetto da cui partono anche un paio d’ali. Il “sasso” e il suo nuovo abito sono ancora strozzati nella confezione sottovuoto.

Apparente anonimato anche per le confezioni dei prodotti di Body Shop, Lush o Shu Uemura, che da alcuni anni vendono i loro saponi, creme, ombretti e ciprie in scatoline trasparenti, in flaconi e vasetti standard o addirittura “al chilo” cioè sfusi, come fino a quarant’anni fa accadeva per la pasta o lo zucchero.
Evidentemente, per alcune aziende, il valore del marchio e del mondo costruito intorno ad esso, è diventato più importante del singolo prodotto. Così il packaging-protagonista si è trasformato in packaging-strumento attraverso il quale il consumatore accede al mondo del brand. Insomma nell’era dell’accesso descritta da Jeremy Rifkin come la grande rivoluzione per cui, nella new economy, più che possedere un bene, sarà sempre più importante accedere a un servizio (sia esso l’abbonamento a un internet provider o un’automobile da usare per tre giorni al mese) sarebbe già iniziata da un po’ e noi non ce ne siamo accorti.

Già nel 1985 la vodka Absolut lanciava l’operazione che, da allora, coinvolge centinaia di artisti e designer di tutto il mondo per reinventare, all’infinito, la sua anonima bottiglia. In questo modo è nato una specie di network artistico a cui il consumatore partecipa non solo visitando le mostre itineranti, ma anche acquistando la vodka. Eppure oggi, questo emblematico prodotto, sta lanciando nuovi segnali. Nelle ultime pubblicità infatti la bottiglia è presente in tutta la sua “normalità” e con un’esposizione quasi asettica nella sua finta funzionalità, alcune didascalie, con relativa freccetta, spiegano al consumatore il significato di ogni scritta, simbolo o immagine presente sulla bottiglia. Citazione o inversione di tendenza? E’ troppo presto per dirlo.
Del resto “l’asettico” è una delle categorie più sfruttate negli imballaggi in marcia verso la trasformazione. Una categoria dalla presenza scenica tanto forte da ispirare persino la creazione di veri e propri imperi commerciali.
Marchi no-brand come Muji, la catena nipponica di negozi che vendono un po’ di tutto, dalla birra alle sedie all’abbigliamento, nata nel 1980 con lo slogan “tante buone ragioni per essere abbordabile”, impone come unica regola per essere “della famiglia” il minimalismo integralista della merce e, naturalmente, anche del packaging. Nata in Giappone, oggi Muji ha molti negozi anche a Londra e Parigi.
Il marchio Ikea può forse essere considerato uno degli antesignani del minimal-pack, per di più applicato ad un campo, come l’arredamento, che ha sempre avuto, a ragione, un rapporto poco amichevole con gli imballaggi in genere; obiettivamente però il suo minimalismo non è mai riuscito a diventare seduzione.
Al contrario c’è un pezzo storico dell’arredamento, la poltrona UP5 disegnata nel 1969 da Gaetano Pesce per B&B, il cui packaging primario, un film di PVC dentro cui l’imbottito era sigillato e compresso sottovuoto come un’enorme sottiletta, partecipava attivamente al progetto complessivo. Una volta aperto il grande sacchetto in PVC, l’aria rientrava lentamente tra le celle dell’espanso e la poltrona riprendeva corpo.
Il minimalismo, la riduzione di forma e materia, il sapiente utilizzo di particolari tecnologie, ad esempio un sottovuoto, diventano insomma metafore per la pelle dei prodotti che possono mostrarsi direttamente al consumatore oltrepassando il medium dell’imballaggio come era concepito in passato.
Lo stesso risultato si può raggiungere persino percorrendo la strada in maniera diametralmente opposta, come ha fatto la Nestlè con le caramelle Polo e con i mini Smarties. Si mostra qui infatti come il packaging possa morire anche per eccesso di presenza, per gigantismo informativo. Come accade nel racconto La lettera rubata di Edgar Allan Poe, in cui la lettera della Regina è “occultata” mettendola in bella mostra (l’imbarazzante documento viene “nascosto” collocandolo semplicemente là dove più lo si può vedere, tra altre innocenti missive), l’ipercaramella Polo in polipropilene bianco, che racchiude le piccolissime caramelline reali, scompare infatti ai nostri occhi come packaging e diventa un prezioso e seducente testimonial della filosofia del prodotto.
Difficile trovare qualcuno che abbia avuto il coraggio di buttare via questo piccolo/grande pezzo di pop art quotidiana.
Ma se le merci irrompono come corpi nel paesaggio commerciale, va da sé che finiranno col sottoporsi anch’esse alla dura legge della vita e della morte.
C’è qualcuno infatti che con la morte ha deciso di giocarci davvero, abbattendo finalmente uno dei massimi tabù merceologici. Parliamo del gruppo degli adbuster, quei sovversivi del commercio globale che, da qualche anno, tutti gli anni, organizzano i “no-buy day” come segno di protesta contro il consumismo imperante. L’involontario strumento di una delle loro campagne shock è stato il dromedario che da tanti anni, suo malgrado, promuove le sigarette Camel. In suo onore è stato creato un alter ego che, per la verità, non gode di ottima salute. Si tratta di Joe Chemo, diventato, appunto, uno dei protagonisti delle anti-campagne pubblicitarie inventate dagli adbuster. Come suggerisce il nome, nel manifesto compare il fumetto di un dromedario con delle flebo inserite nel corpo mentre girovaga, con lo sguardo spento, per i corridoi di un ospedale: l’immagine suggerisce che, dopo averne fumate tante, Joe Chemo ora sia gravemente malato e che si stia avvicinando la fine dei suoi giorni. E’ chiaro che la morte del dromedario segnerebbe, immediatamente, la morte di uno dei packaging più noti al mondo. Nell’ottobre del 2000, sul sito internet degli adbuster, si chiedeva di partecipare alla raccolta dei fondi per poter acquistare un grande spazio pubblicitario in cui affiggere il manifesto con Joe Chemo. Ma già allora s’era scatenata la battaglia legale da parte dei produttori delle sigarette. Non sappiamo se, a tutt’oggi, abbia vinto il mercato o la forza delle immagini.
La morte, comunque, prelude sempre all’inizio di qualcosa di nuovo, magari inatteso, ma non per questo orrorifico. Allora, più che accanirsi contro chi sceglie di dare voce a un dromedario di cartoncino, forse le aziende farebbero bene ad occuparsi delle mutazioni culturali se, anche in futuro, vorranno continuare a far parte, con le loro lattine, delle nostre fantasie quotidiane.

L’Invisibile Involucro

Lush* rivoluziona il modo di vendere i cosmetici. Tutti freschi. Tutti fatti a mano.
Tutti rigorosamente privi d’imballaggio. Eppure…

Sonia Pedrazzini

Entrando nel negozio si resta per un attimo attoniti e confusi; un’ondata di odori e profumi investe tutto, corpo e mente.
Lavanda. Banana. Cioccolata. Rosmarino. Rosa. Aromi d’oriente. Senape e zenzero. Muschio. Latte e miele. Fiori d’arancio. Menta. Foglie di tè.
Non si capisce se siamo entrati in una drogheria, in una profumeria o in una latteria. Sui banconi grosse forme, come di formaggio, vengono tagliate a fette, pesate e incartate in carta oleata. Possiamo comprare, a scelta, un etto o due di shampoo solido alla frutta oppure un vasetto di morbida crema alle mandorle; un pacchettino di argilla o una sfera (una Ballistica) al gelsomino. Sono cosmetici succosi, appetibili, lussureggianti, fanno venire l’acquolina: sono Lush!

Lush nasce in Inghilterra nel 1995, fondato da un gruppo di vegetariani esperti di cosmesi naturale, sotto la guida di Mark Constantine, ideatore e animatore del progetto. Alla base della filosofia Lush ci sono alcune idee di gran successo come quella di “fare a mano” e di “firmare” con il nome di chi lo ha fatto, i singoli prodotti; di usare solo ingredienti naturali e frutta e verdure fresche; di rifiutare rigorosamente l’utilizzo di materie prime derivanti da sperimentazioni su animali. A questo si aggiunge la singolare presentazione dei cosmetici che, apparentemente privati di ogni forma di imballaggio tradizionale, in realtà sono rivestiti da un packaging impercettibile ma potentissimo, più sottile e diffuso, un packaging mentale, si potrebbe dire, che invece di riguardare la superficie dell’oggetto prende in considerazione la sua contestualizzazione e di conseguenza il nostro immaginario.

E’ proprio il contesto, infatti, ciò che colpisce non appena si mette piede nei negozi Lush. Pensati come le drogherie o le latterie di una volta, con inservienti gentili e premurosi, con tanto di banconi stracolmi d’ogni “ben di Dio”, pieni di merci profumate e in bella vista, si è accolti da una tale abbondanza visiva e olfattiva da essere invogliati a “mangiare” tutto con gli occhi prima ancora di capire che cosa ci sia realmente da comprare.
Chi entra in un negozio Lush è letteralmente preso per la gola e… dalla nostalgia. Tutto è fatto a mano e i voluminosi blocchi di sapone solido o le larghe ciotole di fresche creme appena montate, non ancora trasformate in porzioni da vendita al dettaglio, risvegliano ricordi di “casa dei nonni”, di cucina, di giardino, di grande famiglia. E quindi di buono, di genuino, di tempo passato, di vero.

Gli odori, fortissimi e penetranti, non trattenuti da carta e involucri vari che ne impediscono la diffusione, circolano liberamente nell’aria e paradossalmente “imballano” il prodotto con un packaging molto più efficace di quello comune, fatto di fogli, cartoncini, sacchetti, pellicole, vasetti e bottiglie. Gli odori, si sa, risvegliano ricordi, dispiegano immagini e sogni, resuscitano sensazioni. Non a caso si dice indossare un profumo; il profumo è una barriera, come un vestito, un invisibile involucro; l’oggetto senza packaging che respira e trasuda profumazioni non ha bisogno di sottolineare altro, è già lui stesso un pezzetto di “memoria impacchettata”.
E ancora, nel magico mondo Lush al naturale, gli splendidi colori “dal vivo” e le texture “tattili” di saponette, shampoo, creme, maschere, trattamenti, sono sicuramente molto più affascinanti e convincenti (perché si possono vedere e toccare) delle solite grafiche sulle scatole da profumeria.
Insomma, il packaging della merce, che in altri luoghi seduce e cattura con i tradizionali mezzi della comunicazione visiva, qui viene usato in modo nuovo, diventa indiretto e immateriale; non serve a proteggere e non deve contenere, (Lush ha inventato proprio per questo cosmetici solidi, senza acqua né conservanti); non deve banalmente informare, né richiamare con marchi, scritte, disegni; nega se stesso, ma così facendo si impone più profondamente e imprigiona i nostri sogni attraverso la rete dei sensi.
Impackt intervista Mark Constantine, fondatore di Lush

Il marchio Lush è ben riconoscibile e possiede un’immagine molto forte; com’è stato possibile conciliare questa visibilità con la scelta di “azzerare” il packaging dei prodotti?
Ci piace esporre i nostri prodotti in modo spettacolare e questo è il sistema migliore per far apprezzare la freschezza degli ingredienti utilizzati nei nostri cosmetici. La decisione di esporre prodotti di bellezza senza alcun imballo, ricorda molto le bancarelle dei mercati di una volta dove si vedevano solo i prodotti freschi e chi li vendeva.
Anche se il packaging dei prodotti Lush sembra essere quasi nullo, tuttavia si può notare la presenza di un ben preciso progetto di packaging nelle carte e nei sacchetti usati per imballare i prodotti sfusi, nei vasetti, nella presentazione e nella forma stessa dei prodotti. A quale estetica vi rifate e con quali criteri di scelta create questa sorta di “antipackaging”?
Ci riferiamo alla naturale bellezza degli ingredienti. Ci ispira molto vedere la frutta e la verdura che arrivano freschissime al mercato. Ci piace osservare il fascino selvaggio della natura. Tutto quello che si vede nei nostri negozi è pensato per fornire un impatto emotivo e questo vale anche per il packaging che in alcuni casi dobbiamo usare, come i vasetti per le creme e le shopping bag, tutte marchiate con il logo Lush.

Per quale motivo Lush ha pensato di associare i cosmetici al cibo, tanto da farlo diventare il punto di forza della propria immagine?
E’ l’idea di freschezza che fa associare gli alimenti ai cosmetici; noi riteniamo di aver creato una nuova categoria di prodotti di bellezza utilizzando proprio ingredienti freschi. Così come nel cibo la freschezza è tutto, anche nei prodotti cosmetici la pelle beneficia quando si usano solo ingredienti freschi e naturali.

Come reagisce la gente di fronte ai vostri prodotti freschi venduti senza imballaggio?
E’ molto raro che non ci sia una reazione da parte della gente – di solito ci fanno mille complimenti. Lush si basa molto sull’aspetto sensoriale e per certe persone questo può essere persino un po’ scioccante.
Ma è veramente ipotizzabile un futuro in cui tutti i prodotti possano essere venduti senza imballaggio?
Mi piace immaginare un futuro in cui tutti i tipi di prodotto saranno venduti senza packaging.

Non c’è il rischio che l’assenza di packaging renda i vostri prodotti difficilmente utilizzabili e conservabili una volta a casa?
In pratica noi non usiamo conservanti, e questo, nella creazione di prodotti freschi, ci avvantaggia ulteriormente. Ci divertiamo molto ad inventare cosmetici dalla forma piacevole, pratici da usare e da conservare, apprezzati dalla gente, come il recente “No shit colour and shine”, henné per capelli in forma solida.

In conclusione, Lush indica veramente una filosofia di vendita, o addirittura di vita – oppure è solo una trovata pubblicitaria?
Niente di Lush è “una trovata pubblicitaria”. Lush è quello che facciamo, che amiamo e che speriamo anche i nostri clienti amino come noi.