Bio-design: la bottiglia “alveare”

Per festeggiare il lancio del suo nuovo whisky al miele, la Dewar’s ha fatto realizzare da 80.000 api una copia ingrandita della bottiglia. Sotto la supervisione di un maestro apicoltore, le indefesse operaie hanno costruito il loro alveare seguendo la forma dello stampo. In circa sei settimane, l’opera è arrivata a compimento. Un risultato incredibile della coalizione tra natura e tecnologia.

Quando la Dewar’s ha deciso di creare una scultura per il lancio di Highlander Honey Whiskey, ha esasperato il concetto della stampa 3-D utilizzando l’abilità delle api e ha dato forma ad un progetto apparentemente impossibile, il “3-B Printing Project”. Ma come si può dirigere uno sciame di api affinché realizzino un alveare proprio come lo vogliamo noi?

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A questa domanda ha saputo rispondere la competenza di The Ebeling Group (che vanta la reputazione di risolvere i progetti più incredibili) e di un maestro dell’apicultura, Robin Theron.
Innanzitutto il team di The Ebeling ha creato un modello 3-D (stampato nel modo tradizionale) che potesse essere usato dalle api come base su cui costruire le loro cellette e lo ha racchiuso in una scocca trasparente, di poco più grande, in modo da riprodurre il reale spazio in cui si muovono le api nelle arnie; questo permetteva anche la perfetta visuale dei “lavori in corso”. Sono stati poi creati i percorsi di entrata e uscita delle api per la ricerca del polline e, infine, sono state introdotte migliaia di operaie.

L’intero processo è durato circa sei settimane, ci sono volute due intere colonie di api, la prima delle quali è stata completamente rimossa prima di poter introdurre la seconda; oltretutto, per evitare che il favo si riempisse di miele e che fossero deposte altre uova, l’ape regina è stata tenuta isolata per alcuni periodi. Le api giravano in piena libertà e per riprenderle mentre atterravano sui fiori e sugli strumenti, tutti indossavano maschere e tute protettive. Una volta  creato l’alveare, la scocca di plastica è stata accuratamente rimossa e il risultato finale è stato sorprendente e scenografico: una splendida bottiglia di miele in forma di bottiglia.

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Per correttezza d’informazione
non si può evitare di citare il lavoro dell’artista Slovaccco Tomáš Gabzdil Libertíny a cui l’agenzia Sid Lee – che ha seguito la campagna per il lancio del nuovo whisky Dewar’s – si è chiaramente ispirata. L’opera di Libertíny, realizzata nel 2007 con una tecnica del tutto simile, utilizzava 40.000 api si chiamava  “slow prototyping”.

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Per saperne di più Slovakian Honeycomb Vase Designer Claims Dewar’s Whiskey Campaign Exploits His Work | Inhabitat – Sustainable Design Innovation, Eco Architecture, Green Building

“Ti amo Italia”

Basta piangersi addosso, lamentarsi sempre, svalutare le nostre meraviglie.
Siamo un popolo strano, fatto di genio e sregolatezza, di furbetti e di eccellenze, e in mezzo tanta bellezza. Siamo italiani, siamo così.

Diamoci una mossa e apriamo gli occhi, la crisi c’è e non passerà presto ma una delle nostre migliori qualità è il saperci reinventare.
Su la testa, tiriamo fuori il nostro orgoglio, “Ti amo Italia”… lo dice anche il packaging.

È una bella dichiarazione d’amore quella che Collistar esprime con una capsule collection disegnata da Antonio Marras e caratterizzata da nuance che si ispirano al nostro Paese e ai suoi luoghi simbolo; a suggerire la palette dei colori di rossetti, ombretti, gloss e terre ci pensano infatti le atmosfere di città come Venezia, Milano, Verona, Roma, Siracusa.

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A livello grafico, il fil rouge che percorre tutto il progetto è il tipico segno dello stilista sardo, sotto forma, questa volta, della silhouette di un volto di donna, elegante, essenziale, poetico e che sembra ispirato ai profili senza tempo del grande Modigliani. collistar_bazzani12_web

Interessante è la riuscitissima integrazione tra disegno (l’occhio della donna) e marchio, la “c” simbolo di Collistar, che, assieme all’utilizzo del rosso rubio – il colore identificativo di Marras – per dipingere la bocca della donna, rappresentano il connubio saldo ma discreto tra due marchi del “bel” Made in Italy.

Cassette (d’artista) e Bollicine

Fondata nel 1729, Ruinart è la più antica maison di champagne al mondo.
La prima che per invecchiare i suoi vini ha utilizzato profonde e antiche cave di pietra scavate sotto la città di Reims. La prima a custodire, dalla fine del XVIII secolo, le bottiglie in scatole di legno e la prima a riproporre l’uso della bottiglia a bulbo.

Con questi presupposti il designer olandese Piet Hein Eek ha creato le casse in legno per il Blanc de Blancs de Ruinart.
Ovviamente seguendo il suo stile nordico e molto “eco-chic”.

Per evitare inutile spreco di materiali e ottimizzare il trasporto riducendo al massimo l’impatto ambientale, ha ideato e realizzato uno scrigno trapezoidale la cui sagoma è stata idealmente ritagliata, con una serie di tangenti minimali, sullo spazio fisico occupato dalla bottiglia.

Ne è derivata una cassetta tronco-piramidale che – oltre ad assolvere la funzione di vero e proprio packaging “d’artista” – avendo una forma che ricorda le chiavi di volta utilizzate nei portali, come fosse un elemento architettonico ricorrente (o come un pezzo del “Lego”) può essere impilata in modo molto compatto e usata per comporre grandiose e scenografiche istallazioni.


Secondo il tipico approccio di Eek, il legno delle casse è riciclato, ma per meglio riprendere i colori del Blanc de Blancs è stata scelta un’essenza di pino pazientemente selezionata nelle tonalità del grigio pallido, bianco e crema e poi trattata in superficie con lacche che ne impreziosiscono la finitura. Ogni cofanetto è stato realizzato a mano negli atelier di Piet Hein Eek, a Geldrop, nei pressi di Eindhoven, ed è firmato e numerato così da diventare unico, come la bottiglia che contiene.

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Dalla Puglia con amore

Olio, tarallucci e timbri sono gli ingredienti di un progetto made in Italy al 100%. Nato dalla passione per il design, la tipografia e il buon cibo, Typuglia è un giovane marchio che propone specialità gastronomiche pugliesi “vestite” a regola d’arte.

L’ideatore, Leonardo Di Renzo, amante della sua terra, della tipografia e creativo di professione, ha avuto la felice intuizione di promuovere e distribuire i prodotti migliori della sua regione arricchendoli di un packaging accurato, debitamente progettato per trasmettere i valori ancora insiti in queste produzioni autoctone: artigianalità, qualità degli ingredienti, manualità, estro e buon gusto, ma anche nuove doti come la sostenibilità e l’etica.


La spinta di tutto è stata la passione per la tipografia e il desiderio di riscoprirne l’antica tecnica, di ritrovare quella manualità che si stava perdendo sulle scrivanie digitali.

Di Renzo e i suoi soci adesso selezionano taralli, orecchiette, sughi e olio extravergine da piccole aziende locali che lavorano alla maniera tradizionale. Poi, con l’estro dei creativi, ideano e realizzano tutte le confezioni (a mano, una per una, anch’esse come fossero un prodotto gastronomico fatto in casa) – dall’orcio in terracotta lavorata e dipinta a mano, alla scatola di cartone alveolare riciclabile e riutilizzabile come portagioie o lampada (basta seguire le semplici istruzioni contenute all’interno della confezione), alle etichette stampate a mano e numerate, alle mini bag contenenti vere foglie di ulivo – e infine si occupano della vendita e della distribuzione.

Il target è ben preciso, Di Renzo e compagni li chiamano i “gourmet designer”, esigenti, capricciosi, perfezionisti e insaziabili, sono quelli che si aggirano con curiosità tra i banchi dei bookshop di musei e gallerie d’arte, frequentano bistrot, spiano tra gli scaffali delle enoteche e delle gastronomie per appagare i più raffinati desideri. Proprio come loro.

 

Assolutamente Unica

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Absolut Vodka sa usare il packaging come il migliore degli strumenti di marketing e con grande abilità è sempre riuscita a comunicare immagini diverse con la stessa bottiglia. Ma con Absolut Unique e Absolut Originality l’azienda svedese ha superato se stessa realizzando ben quattro milioni di pezzi unici.

Dopo decenni di esperienza per fare in modo che ogni bottiglia fosse esattamente la stessa, Absolut Vodka ha ribaltato il suo statuto affermando che non devono esistere due bottiglie con lo stesso aspetto. Per rendere possibile quello che all’inizio sembrava una folle idea, un imponderabile azzardo, è stato necessario riprogettare l’intero processo di produzione. Sono state costruite macchine generatrici di colore e bracci robotizzati dotati di pistole a spruzzo ed è stato sviluppato uno speciale algoritmo per realizzare una sequenza quasi infinita di combinazioni da 35 colori e 51 disegni.
Una volta stabilite le regole, le macchine hanno fatto il resto e lo stabilimento di Absolut Vodka si è trasformato nello studio di un pittore astrattista.
In questi termini, con la creazione di una enorme quantità di bottiglie tutte diverse e tutte numerate, piuttosto che di una piccola quantità dal design unico, si è capovolta la filosofia dell’oggetto da collezione, che da ricerca spasmodica per la rarità si è così trasformata, in questo caso, in “qualsiasi bottiglia troverai sarà unica”.
Tutto ciò accadeva solo un anno fa; come sempre incessante nel proporre le sue novità, Absolut Vodka ha appena lanciato Absolut Originality una nuova limited edition da “quattro milioni di pezzi unici”, artisticamente decorati con un ricercato effetto che mette in risalto il cristallo del vetro e connota ogni bottiglia con venature e striature blu, colore simbolo di Absolut.
Una bottiglia sempre diversa, realizzata con tecnologie d’avanguardia ma che si rifanno all’abilità artigianale dei maestri vetrai svedesi e all’uso di gocce di vetro cobalto che, integrate nella massa vetrosa e fuse a una temperatura di 1.100°C, sciogliendosi, producono screziature sempre differenti.
Ma questa è un’altra storia.

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Ciack si gira: Bozzetti e Rossetti

Giovani promesse del fashion “vestono” la collezione trucco ufficiale della Mostra del Cinema di Venezia tra red carpet, photocall e night première.

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Lagune Extase è la limited edition che L’Oréal Paris – per la sesta volta sponsor e make-up ufficiale della Mostra del Cinema di Venezia – ha dedicato all’edizione 2013. Una collezione di rossetti, mascara e smalti il cui packaging è firmato da quattro emergenti e talentuosi fashion designer, selezionati per l’occasione da Vogue Italia.

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Ad Angelos Bratis, Barbara Casasola, Marta Ferri e Stella Jean è toccato dunque il compito di interpretare quattro look ispirati agli appuntamenti principali che vedono impegnata una star durante la Mostra del Cinema e di “rivestire” i flaconi da trucco con i bozzetti delle loro creazioni uniche ed esclusive.
Per il “Red Carpet”, Barbara Casasola ha ideato un look da sirena contemporanea e sensuale da indossare con labbra rosso vivo e a contrasto mani dalle unghie bianche.
Per la “Night Première”, invece, Angelos Bratis ha proposto una donna lunare, elegante, quasi eterea, opposta all’immagine solare ed allegra che Stella Jean – il cui stile, personalissimo, riflette la sua héredité creola – ha suggerito nel look ideato per il “Social Party”.

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Infine, la stilista Marta Ferri ha interpretato il “Photocall” – momento in cui le star si dedicano ai flash dei fotografi – con grande freschezza e un pizzico di romanticismo.

I piccoli flaconi istoriati parlano da sé: graziosi souvenir da sfilata, sono miniature tridimensionali che raccontano il sogno della moda e fa effetto vedere come poi le sinuose figurine disegnate dai quattro fashion designer abbiano davvero preso vita e sfilato in passerella.

Un motivo in più per collezionare questi packaging unici. Sempre ammesso di trovarli ancora.

L’invisibile sicurezza del pack

Il “buon packaging” salva non solo il prodotto ma anche il feeling con i consumatori.
Abbiamo più volte parlato degli elementi “immateriali” che compongono una confezione, riferendoci in particolare alla comunicazione del brand, al prodotto che veicola messaggi culturali… Ora, anche quando si parla di sicurezza non si può fare a meno di notare che oltre alle qualità chimico/fisiche dei prodotti, il “buon packaging” viene progettato per tutelare alcuni elementi incorporei o invisibili, come gli odori, i sapori, i colori, l’aspetto generale del prodotto e addirittura il feeling che lo lega ad ogni suo consumatore.
Gli odori, per esempio, possono essere una caratteristica piacevole se parliamo di profumi, ma nel caso di aromi forti e penetranti – quelli che drammaticamente tendono all’invasione dell’ambiente circostante – le cose cambiano notevolmente.
Ne sa qualcosa il produttore del Roquefort Société, formaggio dal caratteristico aroma, che divide nettamente amatori e detrattori.
Gli opposti schieramenti possono condividere pacificamente e temporaneamente, a tavola, la presenza del formaggio, ma se l’involucro non è ben sigillato e viene lasciato in frigorifero, l’odore del formaggio invade e pervade minuziosamente ogni altro alimento presente. Va dunque riconosciuto un grande merito alla confezione del Roquefort Société che, con il doppio contenitore e un cuscinetto di materiale espanso, permette di ottenere una chiusura pressoché ermetica del packaging.
Quando gusto e aromi sono invece oggetto di una vera e propria venerazione, come nel caso dei sigari, evitare che questi perdano d’intensità e qualità diventa, nei confronti del consumatore, una sorta di dovere morale. La confezione singola in alluminio con tappo a vite, utilizzata da alcune marche, insieme al classico impacchettamento con film plastico, ha forse il difetto di rendere invisibile il prodotto, ma protegge il sigaro dalla luce e dalla fuga dell’aroma e perciò dovrebbe garantire una certezza di qualità al consumatore appassionato. Usiamo volutamente il verbo al condizionale perché in realtà, una volta giunto integro a destinazione, il sigaro dovrà affrontare, come tutti gli altri prodotti, il duro confronto con il mondo reale, in particolare dovrà vedersela con le papille del fumatore e con il fatto che i sapori vengano percepiti in modo diverso da ogni individuo… insomma è praticamente impossibile garantire che i sigari abbiano un gusto unico e certamente uguale per tutti.
Il packaging si fa falsamente discreto e silenzioso, al limite della mimetizzazione, quando bisogna invece assicurare l’estetica del prodotto, una caratteristica particolarmente cara al mercato giapponese. Le gomme da masticare Colorful-ru, per esempio, portano scritto nel proprio nome la loro caratteristica principale, la priorità assoluta da rispettare. In questo caso ciò che l’azienda vende non è un nuovo gusto fruttato o la minor quantità di zucchero e calorie, quanto piuttosto un’esperienza cromatica. Il valore principale da salvaguardare è perciò la disposizione delle gomme, con colori selezionati e organizzati in una sfumatura che degrada dal beige chiaro fino al vinaccia scuro. Vale perciò la pena di correre il rischio dell’over-packaging, per garantire una posizione stabile delle gomme. Così, oltre a una bustina esterna, inevitabilmente trasparente, la confezione include una minuscola rastrelliera di plastica che costringe le gomme ad una posizione inclinata e ordinata, che tale resterà dal momento del confezionamento fino alla completa consumazione.
Nel settore dei farmaci, la sicurezza del prodotto dal punto di vista fisico-chimico è, naturalmente, una condizione ineliminabile. Da molti anni ormai anche le modalità d’assunzione sono in un certo senso delegate al packaging, si pensi, tra gli esempi più antichi, al classico contagocce in vetro. Se però vogliamo parlare di quella sicurezza invisibile e immateriale, che ha a che fare con la psicologia del consumatore e con il suo feeling verso il prodotto, non devono stupire le critiche avanzate dalle donne proprio nei confronti di un particolare tipo di packaging. È accaduto per alcune pillole anticoncezionali le cui confezioni, pur garantendo perfettamente il prodotto, avevano eliminato l’uso del calendario che aiutava a ricordare di assumere regolarmente il farmaco.
Anche se ogni donna è consapevole che certe garanzie, come la memoria, sono impalpabili e aleatorie (tant’è che tutte le consumatrici, almeno per una volta, hanno dimenticato di assumere la pillola quotidiana) persino le consumatrici più giovani, quindi non legate ad uso tradizionale del prodotto, hanno duramente criticato l’operazione, tacciandola di terrorismo psicologico: la loro sicurezza mentale era stata evidentemente compromessa. In conclusione, forse solamente il settore del prodotto per l’infanzia può permettersi di giocare con la percezione di sicurezza. La caramella gigante che si camuffa da arma spaziale nasce infatti come prodotto-dolcezza, per diventare poi, attraverso il suo packaging, un’arma d’offesa/difesa. È un falso, naturalmente, eppure, grazie all’ambiguo connubio tra violenza e dolcezza, i giovani consumatori inizieranno a prendere dimestichezza con la volatilità dei sentimenti e con l’assenza di certezze nel mondo reale. Quest’arma zuccherina può dare al tempo stesso la sensazione di forza e bontà, trasformando ogni bambino in un novello Robin Hood. E come il famoso personaggio ogni bimbo, spalmando un po’ di “dolce” sul viso del compagno di banco, potrà attraversare agilmente quel sottile confine che separa l’ingenua crudeltà dall’estrema bontà. Ora, il settore dei giochi è guidato da regole davvero molto speciali, ma per tutti gli altri prodotti resta solo un dubbio: il packaging è davvero solo un contenitore senza altra responsabilità che la protezione delle merci?

Maria Gallo designer, coordinatore del master
in Packaging design 2006 presso l’Istituto Europeo
di Design (Milano).

La Forma dell’Oggi

Contemporaneità, progetto, packaging: riflessioni a ruota libera di uno
dei più riconosciuti esponenti del design contemporaneo. Karim Rashid.

Sonia Pedrazzini

Karim Rashid è un designer anglo-egiziano, cresciuto in Canada e residente a New York. È un progettista sfaccettato e prolifico, ha disegnato di tutto, dai cosmetici ai mobili, ai prodotti per la casa, all’oggettistica, alle lampade, agli abiti. Ha imposto la sua creatività in settori come il design, la grafica, la comunicazione, l’arte, la musica (è persino un applaudito DJ) e i suoi prodotti sono stati usati in film e nei programmi di MTV.
Il lavoro di Rashid è apprezzato e ricercato sia dai grandi marchi internazionali (tra cui, solo per citarne alcuni, Sony, Armani, Shiseido, Prada, Issey Miyake, Yahoo!) ma anche da giovani aziende, che fanno del design e dell’innovazione la propria forza vincente, come la californiana Method, per la quale il designer ha creato dispenser e flaconi rivoluzionari nel concetto, inusuali per le forme e l’utilizzo, gradevoli al tatto e alla vista.
Non solo. I suoi progetti sono esposti nei più importanti musei del mondo e in gallerie d’arte. Ha inoltre scritto, pubblicato, insegnato e tenuto conferenze in tutto il mondo.
Karim Rashid si considera un provocatore culturale e non esita a esprimere con forza e convinzione le sue idee sul design, sugli oggetti, sul mondo contemporaneo.

Karim, cos’è un “progetto di design”?
Anzitutto desidero definire il concetto di design, che non è una decorazione superficiale, non è una composizione bonsai, un dipinto a mano su un vaso per fiori: questo è artigianato. Fare un progetto di design significa creare, dare forma, eseguire e realizzare secondo un determinato piano di lavoro, ideare qualcosa e studiarlo nei dettagli; fare uno schizzo, un disegno, un modello per uno specifico scopo. È una pianificazione metodologica, non un’operazione casuale. Design significa veramente costruire qualcosa, sviluppare una nuova condizione per questo mondo artificiale. Definisco il progetto di design come qualcosa che deve essere diretto alla completa soddisfazione dei bisogni e dei desideri contemporanei. Il design non deve essere legato agli stili, alla replicazione del passato, ma è lo sviluppo di soluzioni contemporanee al nostro modo di vivere.
Un’azienda che fonda la propria forza sul design e che dà un incarico a un designer, si trova ad avere a che fare con gli aspetti sociali, umani, politici, creativi ed estetici attuali, non del passato. Oggi, nella società dei consumi, non c’è bisogno di molte “cose”, in compenso “desideriamo” molto. Design non significa dunque risolvere problemi, ma trovare le risposte alle nostre aspirazioni poetiche, estetiche, emozionali e culturali. Design significa anche progresso e innovazione ed è fondamentale per le aziende realizzare oggetti che rispondano alle nuove aspirazioni del consumatore. Se un’azienda non si rinnova di continuo, non può sopravvivere “ai giochi” della globalizzazione, che si sono aperti e sembrano destinati a durare. Non si può più pensare in modo localizzato.

Hai mai avuto un progetto ideale (non necessariamente di design) che in seguito hai potuto realizzare?
Sono molto contento di essere andato oltre il puro ambito del disegno industriale. Faccio mostre d’arte da cinque anni, alla galleria Sandra Gering, da Deitch Projects di e da Elga Wimmer gallery a New York e in parecchi musei come l’Institute of Contemporary Art inoltre sono stato pubblicato su varie riviste d’arte, ma il mondo dell’arte contemporanea fa fatica a prendermi sul serio, soprattutto per i miei prodotti “democratici” a basso costo.
Sono uno dei pochi designer al mondo che fa anche arte ed è magnifico incrociare vari confini, infatti mi occupo anche di musica, film, moda. Il mio vero desiderio è vedere la gente vivere al ritmo del nostro tempo, partecipare a questo mondo e abbandonare ogni forma di nostalgia, le tradizioni antiquate, i vecchi rituali, il kitsch senza senso.
Se la natura umana spinge a vivere nel passato, cambiare il mondo significa cambiare la natura umana. Ho capito che il design ha il potere di cambiare radicalmente i comportamenti sociali, politici e umani; che il suo senso è dare una forma al miglioramento, scolpire un mondo a bassa complessità, bello, intelligente e confortevole. Ho capito che design è il termine che esprime la nozione di contemporaneità e che, quando ci riferiamo al design, stiamo parlando di argomenti attuali, che stiamo già dando forma all’adesso.
Quando ero giovane pensavo a un mondo robotizzato, dove tutto poteva essere prodotto senza il faticoso lavoro di manodopera. Un mondo non disgiunto dalla tecnologia, in cui si potesse comunicare ovunque in tempo reale e immaginavo i nostri spazi come luoghi iperestetici, energetici ed intelligenti. Pensavo anche che nuove tipologie di prodotti, edifici, automobili, arredi, abiti, avrebbero veramente ispirato una nuova info-estetica digitale. Nel 1967, con mio padre e mio fratello, andavo quasi ogni giorno all’esposizione universale di Montreal e vedevo un mondo pensato e progettato da personaggi come Buckminster Fuller, Sarrarin, Colani, Nelson e altri, e quello era il mondo in cui speravo di crescere. Adesso quel mondo è qui, ed è anche più bello, più digitale, più viscerale, comportamentale, comunicativo e fantasmatico che mai. Ed io voglio continuare quella missione, in modo che tutti possiamo abbracciare e connetterci al mondo contemporaneo.

Creatività e design. Che metodo segui per sviluppare nuovi progetti?
Ogni progetto segue metodologie leggermente differenti. La metà delle volte le idee mi vengono durante il primo incontro con il cliente, ma siccome credo in un rigoroso processo metodologico, sviluppo anche altre soluzioni, faccio moltissimi schizzi, ricerco e analizzo procedimenti, tecnologie, materiali, comportamenti umani, per ritornare infine strategicamente alla prima idea. In altre occasioni, prima di arrivare alla soluzione giusta, devo lavorare su vari concept diversi.
Traggo ispirazione da molte cose, dalle parole, dalla filosofia, dall’arte, dalla cultura popolare, dalla musica, dalla vita di tutti i giorni, dai computer e dai programmi digitali, dalla tecnologia. Quest’ultima dovrebbe essere tutt’uno con la produzione, i materiali, il progetto, e comprendere anche l’eliminazione o il riciclo del prodotto. Non è fondamentale che il consumatore sappia tutto ciò, penso infatti che ai suoi occhi l’oggetto debba solo giocare un ruolo umano e che la tecnologia serva solo a renderlo più democratico, a conferirgli poesia e carattere.

Come vedi il nostro mondo futuro?
Il design sarà il nostro scenario universale, senza differenze di luogo o di firma, ma umano, flessibile, organico, intelligente e sperimentale. Credo che i nuovi oggetti che danno forma alla nostra esistenza siano transconcettuali, ibridi multiculturali, oggetti che possono esistere dovunque, in differenti contesti, che sono naturali e sintetici, ispirati dalle telecomunicazioni, dalle informazioni, dall’intrattenimento, dalla tecnologia, da nuovi comportamenti e dalla produzione. L’attuale cultura degli oggetti cattura l’energia dell’era digitale. Nuovi procedimenti industriali, nuovi materiali, il mercato globale, da tutto si può trarre ispirazione per il rimodellamento delle nostre vite.

E il packaging?
È tempo che tutti i prodotti siano belli e intelligenti, indipendentemente dal loro costo; anche l’imballaggio più economico deve essere risolto nell’estetica! Nel ventunesimo secolo ogni packaging verrà ripensato e ridisegnato. Il packaging è necessario e può fornire alla gente esperienze sempre più seducenti. Generalmente, per quanto riguarda il settore cosmetico, i flaconi sono più importanti della fragranza stessa, ma in un ambito che vende immaterialità, il package deve “rappresentare” il profumo, comunicarne l’essenza e tutto il lavoro, l’energia e la complessità che c’è dietro la sua creazione. La bottiglia fornisce identità, marca e un’interpretazione materiale a qualcosa che è assai complesso e astratto. Per secoli le bottiglie di profumo sono state abbellite e rese monumentali.
Un tempo tutti i prodotti erano più decorativi e ornamentali di adesso. Parlavano di ritualità, religione, classi, lusso, regalità, iconoclastia.
Oggi invece, il design “alto” è relegato alla forma di un perfetto rettangolo, ma è noioso, invece abbiamo bisogno di bottiglie che siano il racconto semantico sia del profumo che di un modo di essere.
Nel cosmetic packaging ho lanciato la tendenza di disegnare flaconi che possano essere riutilizzati una seconda volta, invece di essere buttati via. Amo disegnare cosmetici, mi sento molto a mio agio nel farlo, ma sto anche attento a non specializzarmi in questo settore.
Non credo nella specializzazione. Penso che il mondo non abbia frontiere e mi piace navigare tra tutte professioni del progetto, architettura, arte, design del prodotto, interior design, arredamento, mostre, accessori, moda, etc. Mantenendo i confini sfumati posso affrontare qualunque ambito e tipologia, in modo sempre nuovo e differente e ogni progetto diventa motivo di ispirazione per il successivo.

Fra l’altro, hai disegnato i cosmetici monodose di Prada – cosa ci puoi raccontare in proposito?
Il concetto alla base dei monodose di Prada era legato al viaggio, alla nostra esistenza nomade, ad avere prodotti facili da portare, da usarsi solo una volta e puri, perché non contaminati da germi o batteri presenti nell’aria; così se si va in viaggio, o semplicemente in ufficio, o se si sta via solo una notte, si può prenderne solo il quantitativo necessario perfettamente asettico.
Il lavoro è stato lungo e complesso, abbiamo sviluppato 38 diverse piccole ampolle, tubi, fiale, il tutto derivato da schizzi originali non preesistenti. Il progetto è durato tre anni, con grande sforzo di ingegnerizzazione e ricerca.

Qual’è il ruolo degli oggetti nella nostra società?
In mezzo a questo eccesso di merci e di oggetti, la possibilità di “iper -consumare”, di subire la dipendenza dall’immediata soddisfazione del consumo è pericolosa. Ci circondiamo di immmagini, manufatti e prodotti, per dare senso alla nostra esistenza, per creare memoria, presenza e senso di appartenenza. Ma siamo diventati consumisti anche per “passare il tempo”, per gratificare il nostro ego. Avremo sempre “cose” nel nostro mondo, quindi non sto suggerendo di astenerci dal consumare o dal possedere, ma solo di essere iperconsapevoli, di amare e di gioire dei nostri oggetti.
Oppure di farne senza. Gli oggetti caratterizzano il nostro tempo, i luoghi, le relazioni. Possono avere relazioni fenomeniche con la quotidianità e con noi stessi, ma allo stesso tempo possono crearci stress, ostacolare la nostra vita e complicarla. Aggiungere qualcosa alla propria vita può significare anche sottrarre o togliere così che, invece di consumare, si potrebbe “de-consumare”: una teoria di addizione tramite sottrazione, dove il meno può essere il plus. E questo non in base a un approccio minimale o riduttivo, piuttosto come sistema per arricchire la propria vita, accrescendo la propria esperienza con le cose belle, quelle più amate, selezionando le nostre scelte per avere una vita più ricca e per realizzare, alla fine, il lusso più importante del ventunesimo secolo: il tempo libero.
Eliminando le banalità e le frustranti perdite di tempo, potremmo trascorrere il tempo a pensare, creare, amare, essere, usando il tempo in modo più costruttivo. Potremmo anche essere semplicemente più felici, perché adesso siamo bombardati da troppe meschinità, da cose ordinarie, da esperienze mediocri.
Sì, possiamo crescere anche attraverso la sottrazione.

la Luna e la Peonia

A Hong Kong i professionisti della grafica si chiamano Kan & Lau. Tradizione e contemporaneità, Oriente e Occidente si fondono nel packaging di due rinomati designer cinesi.

Sonia Pedrazzini

Kan & Lau Design Consultants è una delle più importanti agenzie di grafica di Hong Kong. Lo studio opera dal 1976 e i suoi fondatori, Kan Tai Keung e Lau Freedman, sono noti creativi, insigniti di premi e menzioni sia livello nazionale che internazionale. Nel 1993 Kan è stato segnalato da IDEA come uno dei 100 migliori designer, mentre Lau – figura di spicco anche nel settore del disegno industriale – ha vinto il premio di “Artist of the year” di Hong Kong.
L’agenzia si occupa di progettazione e creatività a tutto tondo: dalla pubblicità all’immagine coordinata, dal packaging al progetto industriale, allestimenti, attività culturali, persino arte pubblica. Non solo, grazie a un team di validi collaboratori internazionali e multiculturali, lo sviluppo dei nuovi prodotti riguarda sia i mercati asiatici che quelli americani. Oriente e Occidente si incontrano e si fondono sotto forma di confezioni, scatole, bottiglie, prodotti e oggetti in genere, tutti rigorosamente ad alto tasso di professionalità.
Tra le svariate creazioni dei due progettisti alcune più recenti meritano di esser citate, come il trofeo per il China Top Ten Benefiting Laureus Sport for Good del 2004 – meglio conosciuto come Oscar per lo sport – realizzato unendo tra loro le sagome stilizzate degli atleti in movimento, le cui figure sono state tratte dalla mappa Dao Yin, una delle più antiche testimonianze relative alle attività sportive; oppure il logo del nuovo canale televisivo CCTV News, in cui si è voluto integrare la parola inglese “news” nell’ideogramma cinese corrispondente, prestando grande attenzione alla fusione tra calligrafia orientale e alfabeto occidentale; o ancora, il lavoro di concept e immagine coordinata per il marchio cinese di abbigliamento per bambini Aico, in cui mascotte e pupazzetti occhieggiano alla grafica dei manga giapponesi.

Abbiamo intervistato Kan Tai Keung, uno dei soci fondatori dello studio e dal 2003 docente alla Cheung Kong School of Art and Design dell’Università di Shantou.

Considerando l’incredibile crescita economica e le trasformazioni sociali in atto, come è cambiato il packaging in Cina nell’ultimo decennio e come cambierà?
La crescita economica cinese negli ultimi dieci anni è stata rapida e ovvia; il benessere sociale ha fatto aumentare il potere d’acquisto delle persone e ha di conseguenza rafforzato il mercato locale. Oggi le aziende in Cina valutano non solo la quantità della produzione ma prestano particolare attenzione anche alla qualità dei loro prodotti. Un buon design è diventato quindi fondamentale; se poi viene situato in un ambiente che favorisce la competizione è facile che il brand arrivi al successo. Un design attento e un packaging ricercato fanno insomma aumentare la competitività del prodotto.

Quali sono le principali differenze tra un packaging disegnato da un progettista orientale e da uno occidentale?
In realtà, l’obiettivo principale di un designer, orientale o occidentale che sia, è il medesimo: soddisfare le funzioni essenziali della progettazione. Sicuramente i designer orientali sono stati influenzati dai moderni concetti occidentali, ma bisogna anche dire che essi riescono con più facilità a soddisfare i bisogni del mercato asiatico, proprio perché conoscono più a fondo le abitudini di vita dei loro connazionali. Inoltre, per loro, sarà più facile instillare nelle aziende locali i principi per una nuova cultura del brand.

Fare il pack-designer in Cina è una professione vincente?
Qui da noi il packaging design si sta sviluppando molto, e offre ancora grandi spazi all’ottimizzazione e al miglioramento; per sostenere questa crescita, l’industria ha sempre bisogno di nuovi talenti e, per questo motivo, i designer dovrebbero lavorare duro per raggiungere standard molto elevati e costruire una propria etica. È anche molto importante il rispetto reciproco e la collaborazione tra aziende e progettisti. Si tratta comunque di un tipo di professionalità ancora molto giovane in Cina e, pertanto, non può che potenziarsi ulteriormente.

Potete raccontarci un vostro progetto di packaging particolarmente ben riuscito?
Un esempio significativo è il lavoro per Wingwah Cakeshop, una casa dolciaria tradizionale cinese che aveva negozi dedicati solo ai clienti locali. Dopo l’intervento globale di brand identità, la creazione di un nuovo imballaggio e di un nuovo marchio, Wingwah è diventata una pasticceria moderna e di respiro internazionale, così aperta al mercato del turismo da trasformarsi in breve in uno dei più famosi negozi di regalistica e souvenir dolciari. In questo caso è molto evidente che, a contribuire allo sviluppo e all’espansione commerciale di questo marchio, hanno avuto grande peso sia il lavoro di brand identity che di totale innovazione del packaging.

A tal proposito, alle parole di Kan Tai Keung vorremmo aggiungere che, per quanto riguarda il nuovo logo aziendale, i caratteri del nome sono stati inscritti in un quadrato e in un cerchio, corrispondenti, rispettivamente, alla forma di una torta cinese e di una luna piena. Nell’intersezione delle due figure si intravede una peonia, altro storico simbolo dell’azienda e perciò meritevole di essere citato, in quanto, come afferma il designer stesso, quando si rinnova l’immagine di un cliente non bisogna comunque mai dimenticare le sue origini, la sua storia e la sua filosofia; invece, per ciò che concerne le confezioni, sono state create ex novo shopping bag del negozio, sacchetti per le tradizionali salsicce cinesi e le confezioni delle torte “wife” e “mini moon”. Il classico e più conosciuto “traditional moon cake”, per non stravolgerne la memoria, ha solo subito un restyling, sono stati mantenuti alcuni caratteri dell’imballaggio precedente – il colore blu con la luna e la peonia – ma oltre al nuovo logo, sono state apportate significative migliorie.

L’Invisibile Involucro

Lush* rivoluziona il modo di vendere i cosmetici. Tutti freschi. Tutti fatti a mano.
Tutti rigorosamente privi d’imballaggio. Eppure…

Sonia Pedrazzini

Entrando nel negozio si resta per un attimo attoniti e confusi; un’ondata di odori e profumi investe tutto, corpo e mente.
Lavanda. Banana. Cioccolata. Rosmarino. Rosa. Aromi d’oriente. Senape e zenzero. Muschio. Latte e miele. Fiori d’arancio. Menta. Foglie di tè.
Non si capisce se siamo entrati in una drogheria, in una profumeria o in una latteria. Sui banconi grosse forme, come di formaggio, vengono tagliate a fette, pesate e incartate in carta oleata. Possiamo comprare, a scelta, un etto o due di shampoo solido alla frutta oppure un vasetto di morbida crema alle mandorle; un pacchettino di argilla o una sfera (una Ballistica) al gelsomino. Sono cosmetici succosi, appetibili, lussureggianti, fanno venire l’acquolina: sono Lush!

Lush nasce in Inghilterra nel 1995, fondato da un gruppo di vegetariani esperti di cosmesi naturale, sotto la guida di Mark Constantine, ideatore e animatore del progetto. Alla base della filosofia Lush ci sono alcune idee di gran successo come quella di “fare a mano” e di “firmare” con il nome di chi lo ha fatto, i singoli prodotti; di usare solo ingredienti naturali e frutta e verdure fresche; di rifiutare rigorosamente l’utilizzo di materie prime derivanti da sperimentazioni su animali. A questo si aggiunge la singolare presentazione dei cosmetici che, apparentemente privati di ogni forma di imballaggio tradizionale, in realtà sono rivestiti da un packaging impercettibile ma potentissimo, più sottile e diffuso, un packaging mentale, si potrebbe dire, che invece di riguardare la superficie dell’oggetto prende in considerazione la sua contestualizzazione e di conseguenza il nostro immaginario.

E’ proprio il contesto, infatti, ciò che colpisce non appena si mette piede nei negozi Lush. Pensati come le drogherie o le latterie di una volta, con inservienti gentili e premurosi, con tanto di banconi stracolmi d’ogni “ben di Dio”, pieni di merci profumate e in bella vista, si è accolti da una tale abbondanza visiva e olfattiva da essere invogliati a “mangiare” tutto con gli occhi prima ancora di capire che cosa ci sia realmente da comprare.
Chi entra in un negozio Lush è letteralmente preso per la gola e… dalla nostalgia. Tutto è fatto a mano e i voluminosi blocchi di sapone solido o le larghe ciotole di fresche creme appena montate, non ancora trasformate in porzioni da vendita al dettaglio, risvegliano ricordi di “casa dei nonni”, di cucina, di giardino, di grande famiglia. E quindi di buono, di genuino, di tempo passato, di vero.

Gli odori, fortissimi e penetranti, non trattenuti da carta e involucri vari che ne impediscono la diffusione, circolano liberamente nell’aria e paradossalmente “imballano” il prodotto con un packaging molto più efficace di quello comune, fatto di fogli, cartoncini, sacchetti, pellicole, vasetti e bottiglie. Gli odori, si sa, risvegliano ricordi, dispiegano immagini e sogni, resuscitano sensazioni. Non a caso si dice indossare un profumo; il profumo è una barriera, come un vestito, un invisibile involucro; l’oggetto senza packaging che respira e trasuda profumazioni non ha bisogno di sottolineare altro, è già lui stesso un pezzetto di “memoria impacchettata”.
E ancora, nel magico mondo Lush al naturale, gli splendidi colori “dal vivo” e le texture “tattili” di saponette, shampoo, creme, maschere, trattamenti, sono sicuramente molto più affascinanti e convincenti (perché si possono vedere e toccare) delle solite grafiche sulle scatole da profumeria.
Insomma, il packaging della merce, che in altri luoghi seduce e cattura con i tradizionali mezzi della comunicazione visiva, qui viene usato in modo nuovo, diventa indiretto e immateriale; non serve a proteggere e non deve contenere, (Lush ha inventato proprio per questo cosmetici solidi, senza acqua né conservanti); non deve banalmente informare, né richiamare con marchi, scritte, disegni; nega se stesso, ma così facendo si impone più profondamente e imprigiona i nostri sogni attraverso la rete dei sensi.
Impackt intervista Mark Constantine, fondatore di Lush

Il marchio Lush è ben riconoscibile e possiede un’immagine molto forte; com’è stato possibile conciliare questa visibilità con la scelta di “azzerare” il packaging dei prodotti?
Ci piace esporre i nostri prodotti in modo spettacolare e questo è il sistema migliore per far apprezzare la freschezza degli ingredienti utilizzati nei nostri cosmetici. La decisione di esporre prodotti di bellezza senza alcun imballo, ricorda molto le bancarelle dei mercati di una volta dove si vedevano solo i prodotti freschi e chi li vendeva.
Anche se il packaging dei prodotti Lush sembra essere quasi nullo, tuttavia si può notare la presenza di un ben preciso progetto di packaging nelle carte e nei sacchetti usati per imballare i prodotti sfusi, nei vasetti, nella presentazione e nella forma stessa dei prodotti. A quale estetica vi rifate e con quali criteri di scelta create questa sorta di “antipackaging”?
Ci riferiamo alla naturale bellezza degli ingredienti. Ci ispira molto vedere la frutta e la verdura che arrivano freschissime al mercato. Ci piace osservare il fascino selvaggio della natura. Tutto quello che si vede nei nostri negozi è pensato per fornire un impatto emotivo e questo vale anche per il packaging che in alcuni casi dobbiamo usare, come i vasetti per le creme e le shopping bag, tutte marchiate con il logo Lush.

Per quale motivo Lush ha pensato di associare i cosmetici al cibo, tanto da farlo diventare il punto di forza della propria immagine?
E’ l’idea di freschezza che fa associare gli alimenti ai cosmetici; noi riteniamo di aver creato una nuova categoria di prodotti di bellezza utilizzando proprio ingredienti freschi. Così come nel cibo la freschezza è tutto, anche nei prodotti cosmetici la pelle beneficia quando si usano solo ingredienti freschi e naturali.

Come reagisce la gente di fronte ai vostri prodotti freschi venduti senza imballaggio?
E’ molto raro che non ci sia una reazione da parte della gente – di solito ci fanno mille complimenti. Lush si basa molto sull’aspetto sensoriale e per certe persone questo può essere persino un po’ scioccante.
Ma è veramente ipotizzabile un futuro in cui tutti i prodotti possano essere venduti senza imballaggio?
Mi piace immaginare un futuro in cui tutti i tipi di prodotto saranno venduti senza packaging.

Non c’è il rischio che l’assenza di packaging renda i vostri prodotti difficilmente utilizzabili e conservabili una volta a casa?
In pratica noi non usiamo conservanti, e questo, nella creazione di prodotti freschi, ci avvantaggia ulteriormente. Ci divertiamo molto ad inventare cosmetici dalla forma piacevole, pratici da usare e da conservare, apprezzati dalla gente, come il recente “No shit colour and shine”, henné per capelli in forma solida.

In conclusione, Lush indica veramente una filosofia di vendita, o addirittura di vita – oppure è solo una trovata pubblicitaria?
Niente di Lush è “una trovata pubblicitaria”. Lush è quello che facciamo, che amiamo e che speriamo anche i nostri clienti amino come noi.