La vorresti una borsa così?

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Sempre e ovunque presenti, tra luci e ombre, le buste di plastica sono l’ultimo simbolo della nostra società globalizzata. Ora anche in un museo. Shopping bag come non si erano mai viste, tra arte, sostenibilità e design una mostra che induce alla riflessione.

Quella che si è appena conclusa al mudac – musée de design et d’arts appliqués contemporains di Losanna è una mostra che, contrapponendo storie di vita quotidiana con l’arte e il design, ci rivela come l’umile shopping bag possa diventare anche oggetto del desiderio.
Composta da una trentina di opere, l’esposizione riunisce designer e artisti internazionali e mette in evidenza la storia – le storie – del sacchetto di plastica attraverso la lente della cultura, dell’estetica e della politica.
Packaging di culto o spazzatura, riverita o disprezzata, la busta di plastica (per i romagnoli “sportina”), divide le opinioni e rivela il comportamento consumistico di chi la sta usando.

Se da un lato per i contenuti grafici e comunicativi e per la sua forza iconica può rafforzare il nostro status o la nostra identità, dall’altro, il suo utilizzo smodato e improprio (specialmente per quanto riguarda lo smaltimento) causa problematiche di degrado ambientale che non possono più essere ignorate.

E così, grazie a cortometraggi e dibattiti sulle alternative possibili e sull’evoluzione dei materiali, e attraverso installazioni, sculture, fotografie, dipinti e oggetti – non solo opere contemporanee ma anche pezzi provenienti da collezioni private svizzere, come la borsa di Joseph Beuys realizzata nel 1972 per l’installazione Büro für Direkte Demokratie durch Volksabstimmung a Documenta Kassel – questa mostra, originale e ben costruita, ha saputo proporre un’indagine critica e approfondita su un imballaggio tanto banale quanto impossibile da ignorare.

 1- View of the exhibition "Would You Like A Bag With That" ? Photograph © David Gagnebin-de Bons
 2- Andreas Blank, Untitled, 2011, albâtre et marbre, 96.5 x 40x 32.5 cm Photographie © Michael Lio
 3- Baptiste Debombourg et David Marin, Marx, 2013, sac plastique doré à la feuille d'or 24 carats, 40 x 25 x 25cm. Courtesy Galerie Patricia Dorfmann, Paris
 4- Joseph Beuys, Bureau pour la démocratie directe par le vote populaire, Documenta Kassel, 1972. Coll. Ida-Marie Corell
 5- Iskender Yediler, ALDIPLUSLIDL, 1998, sacs en plastique et sèche-cheveux. © Iskender Yediler
 6-Jeremy Scott, collection Boudoir Bombshell, prêt-à-porter printemps-été 2011 Photographie © Randy Brooke
 7-Jet Set © Coll. Museum für Gestaltung Zürich. Designsammlung. Zürcher Hochschule der Künste.
 8-© Jörger-Stauss
 9- Marie-Claire Baldenweg, Art Basel / Miami Beach, 2010, huile sur toile, 160 x 160 cm. © Marie-Claire Baldenweg
 10- Ruben Verdu, Louis Vuitton Trash Bag, 2004, sérigraphie sur sac en plastique, 58 x 54 cm © Ruben Verdu
 11 - HendrikKerstens, Bag2007

Ciack si gira: Bozzetti e Rossetti

Giovani promesse del fashion “vestono” la collezione trucco ufficiale della Mostra del Cinema di Venezia tra red carpet, photocall e night première.

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Lagune Extase è la limited edition che L’Oréal Paris – per la sesta volta sponsor e make-up ufficiale della Mostra del Cinema di Venezia – ha dedicato all’edizione 2013. Una collezione di rossetti, mascara e smalti il cui packaging è firmato da quattro emergenti e talentuosi fashion designer, selezionati per l’occasione da Vogue Italia.

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Ad Angelos Bratis, Barbara Casasola, Marta Ferri e Stella Jean è toccato dunque il compito di interpretare quattro look ispirati agli appuntamenti principali che vedono impegnata una star durante la Mostra del Cinema e di “rivestire” i flaconi da trucco con i bozzetti delle loro creazioni uniche ed esclusive.
Per il “Red Carpet”, Barbara Casasola ha ideato un look da sirena contemporanea e sensuale da indossare con labbra rosso vivo e a contrasto mani dalle unghie bianche.
Per la “Night Première”, invece, Angelos Bratis ha proposto una donna lunare, elegante, quasi eterea, opposta all’immagine solare ed allegra che Stella Jean – il cui stile, personalissimo, riflette la sua héredité creola – ha suggerito nel look ideato per il “Social Party”.

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Infine, la stilista Marta Ferri ha interpretato il “Photocall” – momento in cui le star si dedicano ai flash dei fotografi – con grande freschezza e un pizzico di romanticismo.

I piccoli flaconi istoriati parlano da sé: graziosi souvenir da sfilata, sono miniature tridimensionali che raccontano il sogno della moda e fa effetto vedere come poi le sinuose figurine disegnate dai quattro fashion designer abbiano davvero preso vita e sfilato in passerella.

Un motivo in più per collezionare questi packaging unici. Sempre ammesso di trovarli ancora.

Ti ricordi che è già domani?

Bellezza, contenuti e contenitori: una mappa interattiva per leggere la contemporaneità.

Il packaging. Delizia e tormento. Fatale attrazione che indissolubilmente – con amore o con odio – ci lega per sempre alle merci.

In modo sempre più versatile e coinvolgente, il packaging oggi fa da “trait d’union” tra la società e il mondo dell’industria, è un ponte che collega territori che sembrano distanti e che pure si confrontano costantemente. Per quanto riguarda la bellezza, da oltre 45 anni la cosmesi e il “made in Italy” trovano la loro collocazione privilegiata alla fiera Cosmoprof, luogo in cui è possibile cogliere più da vicino le atmosfere e lo spirito dei tempi; il packaging cosmetico (assieme a quello del food) è infatti un indicatore assoluto dei cambiamenti nei nostri modi di vivere, intercetta l’evoluzione dei trend, interpreta le ricerche bio-tecnologiche più avanzate. Ormai è impossibile scindere un profumo o una crema dall’immagine che il suo packaging ci comunica – sia che esso appartenga al mercato di massa o di nicchia, sia che si tratti di un nuovo ritrovato della cosmoceutica oppure di un trattamento biodinamico. Sarà proprio attraverso le chiavi di lettura offerte dal packaging che “le merci del piacere” potranno apparire più emblematiche e intriganti. Compito del packaging è dunque interpretare adeguatamente la storia che si cela dietro lo sviluppo di un nuovo cosmetico, dovere del Cosmoprof è mostrarla al meglio.

In altri termini, possiamo dire che proprio il packaging definisce la nostra esperienza quotidiana, agendo da interfaccia conoscitiva, mass-medium tramite cui non solo assumiamo informazioni ma con cui ci formiamo un gusto, esprimiamo un giudizio, costruiamo un immaginario. Non è un caso che esso venga considerato importante strumento di lavoro e motivo di interesse per molti specialisti, ma anche che sia diventato incredibile luogo di sperimentazione per artisti e creativi, registi, filosofi, intellettuali, scrittori e poeti. Il packaging scandisce il “folklore” dell’uomo postindustriale e, a tutti gli effetti è diventato una forma di cultura popolare. Nessuno vi si può più sottrarre.

Come dimostra la rivista Impackt che, dal 2002 al 2009, ha colto ed evidenziato i motivi di tanta attenzione, individuando i collegamenti sorprendenti tra l’imballaggio e la società liquida in cui ci muoviamo; ma anche scovando e raccontando casi didascalici quanto singolari. Ben oltre la matericità dei prodotti e la fisicità dei processi produttivi, per Impackt il packaging è sempre stato infatti segno da interpretare, fenomeno da indagare, mezzo espressivo da condividere. Attraverso il packaging, a sua volta, Impackt ha saputo cogliere e trasmettere gli aspetti più interessanti della nostra contemporaneità e, per renderli accessibili, si è fatto strumento e chiave di lettura alternativa. Oggi, sfruttando le opportunità messe a disposizione dalla tecnologia, Impackt rivive nelle immagini di questa Mappa interattiva realizzata insieme a Cosmoprof/Cosmopack, in un gioco di rimandi tra la carta e il web che sottolinea l’importanza di un pensiero e di una creatività, capaci di andare oltre gli schemi. Inquadrando con uno smartphone il QR code sulle immagini della Mappa, si entra nel mondo Impackt, una volta ancora, valida “guida turistica” concepita per attraversare i panorami reali e mentali del mondo dell’imballaggio. Perché “impacktiani” si nasce, ma lo si può anche diventare.

Sonia Pedrazzini e Marco Senaldi

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L’invisibile sicurezza del pack

Il “buon packaging” salva non solo il prodotto ma anche il feeling con i consumatori.
Abbiamo più volte parlato degli elementi “immateriali” che compongono una confezione, riferendoci in particolare alla comunicazione del brand, al prodotto che veicola messaggi culturali… Ora, anche quando si parla di sicurezza non si può fare a meno di notare che oltre alle qualità chimico/fisiche dei prodotti, il “buon packaging” viene progettato per tutelare alcuni elementi incorporei o invisibili, come gli odori, i sapori, i colori, l’aspetto generale del prodotto e addirittura il feeling che lo lega ad ogni suo consumatore.
Gli odori, per esempio, possono essere una caratteristica piacevole se parliamo di profumi, ma nel caso di aromi forti e penetranti – quelli che drammaticamente tendono all’invasione dell’ambiente circostante – le cose cambiano notevolmente.
Ne sa qualcosa il produttore del Roquefort Société, formaggio dal caratteristico aroma, che divide nettamente amatori e detrattori.
Gli opposti schieramenti possono condividere pacificamente e temporaneamente, a tavola, la presenza del formaggio, ma se l’involucro non è ben sigillato e viene lasciato in frigorifero, l’odore del formaggio invade e pervade minuziosamente ogni altro alimento presente. Va dunque riconosciuto un grande merito alla confezione del Roquefort Société che, con il doppio contenitore e un cuscinetto di materiale espanso, permette di ottenere una chiusura pressoché ermetica del packaging.
Quando gusto e aromi sono invece oggetto di una vera e propria venerazione, come nel caso dei sigari, evitare che questi perdano d’intensità e qualità diventa, nei confronti del consumatore, una sorta di dovere morale. La confezione singola in alluminio con tappo a vite, utilizzata da alcune marche, insieme al classico impacchettamento con film plastico, ha forse il difetto di rendere invisibile il prodotto, ma protegge il sigaro dalla luce e dalla fuga dell’aroma e perciò dovrebbe garantire una certezza di qualità al consumatore appassionato. Usiamo volutamente il verbo al condizionale perché in realtà, una volta giunto integro a destinazione, il sigaro dovrà affrontare, come tutti gli altri prodotti, il duro confronto con il mondo reale, in particolare dovrà vedersela con le papille del fumatore e con il fatto che i sapori vengano percepiti in modo diverso da ogni individuo… insomma è praticamente impossibile garantire che i sigari abbiano un gusto unico e certamente uguale per tutti.
Il packaging si fa falsamente discreto e silenzioso, al limite della mimetizzazione, quando bisogna invece assicurare l’estetica del prodotto, una caratteristica particolarmente cara al mercato giapponese. Le gomme da masticare Colorful-ru, per esempio, portano scritto nel proprio nome la loro caratteristica principale, la priorità assoluta da rispettare. In questo caso ciò che l’azienda vende non è un nuovo gusto fruttato o la minor quantità di zucchero e calorie, quanto piuttosto un’esperienza cromatica. Il valore principale da salvaguardare è perciò la disposizione delle gomme, con colori selezionati e organizzati in una sfumatura che degrada dal beige chiaro fino al vinaccia scuro. Vale perciò la pena di correre il rischio dell’over-packaging, per garantire una posizione stabile delle gomme. Così, oltre a una bustina esterna, inevitabilmente trasparente, la confezione include una minuscola rastrelliera di plastica che costringe le gomme ad una posizione inclinata e ordinata, che tale resterà dal momento del confezionamento fino alla completa consumazione.
Nel settore dei farmaci, la sicurezza del prodotto dal punto di vista fisico-chimico è, naturalmente, una condizione ineliminabile. Da molti anni ormai anche le modalità d’assunzione sono in un certo senso delegate al packaging, si pensi, tra gli esempi più antichi, al classico contagocce in vetro. Se però vogliamo parlare di quella sicurezza invisibile e immateriale, che ha a che fare con la psicologia del consumatore e con il suo feeling verso il prodotto, non devono stupire le critiche avanzate dalle donne proprio nei confronti di un particolare tipo di packaging. È accaduto per alcune pillole anticoncezionali le cui confezioni, pur garantendo perfettamente il prodotto, avevano eliminato l’uso del calendario che aiutava a ricordare di assumere regolarmente il farmaco.
Anche se ogni donna è consapevole che certe garanzie, come la memoria, sono impalpabili e aleatorie (tant’è che tutte le consumatrici, almeno per una volta, hanno dimenticato di assumere la pillola quotidiana) persino le consumatrici più giovani, quindi non legate ad uso tradizionale del prodotto, hanno duramente criticato l’operazione, tacciandola di terrorismo psicologico: la loro sicurezza mentale era stata evidentemente compromessa. In conclusione, forse solamente il settore del prodotto per l’infanzia può permettersi di giocare con la percezione di sicurezza. La caramella gigante che si camuffa da arma spaziale nasce infatti come prodotto-dolcezza, per diventare poi, attraverso il suo packaging, un’arma d’offesa/difesa. È un falso, naturalmente, eppure, grazie all’ambiguo connubio tra violenza e dolcezza, i giovani consumatori inizieranno a prendere dimestichezza con la volatilità dei sentimenti e con l’assenza di certezze nel mondo reale. Quest’arma zuccherina può dare al tempo stesso la sensazione di forza e bontà, trasformando ogni bambino in un novello Robin Hood. E come il famoso personaggio ogni bimbo, spalmando un po’ di “dolce” sul viso del compagno di banco, potrà attraversare agilmente quel sottile confine che separa l’ingenua crudeltà dall’estrema bontà. Ora, il settore dei giochi è guidato da regole davvero molto speciali, ma per tutti gli altri prodotti resta solo un dubbio: il packaging è davvero solo un contenitore senza altra responsabilità che la protezione delle merci?

Maria Gallo designer, coordinatore del master
in Packaging design 2006 presso l’Istituto Europeo
di Design (Milano).

La Forma dell’Oggi

Contemporaneità, progetto, packaging: riflessioni a ruota libera di uno
dei più riconosciuti esponenti del design contemporaneo. Karim Rashid.

Sonia Pedrazzini

Karim Rashid è un designer anglo-egiziano, cresciuto in Canada e residente a New York. È un progettista sfaccettato e prolifico, ha disegnato di tutto, dai cosmetici ai mobili, ai prodotti per la casa, all’oggettistica, alle lampade, agli abiti. Ha imposto la sua creatività in settori come il design, la grafica, la comunicazione, l’arte, la musica (è persino un applaudito DJ) e i suoi prodotti sono stati usati in film e nei programmi di MTV.
Il lavoro di Rashid è apprezzato e ricercato sia dai grandi marchi internazionali (tra cui, solo per citarne alcuni, Sony, Armani, Shiseido, Prada, Issey Miyake, Yahoo!) ma anche da giovani aziende, che fanno del design e dell’innovazione la propria forza vincente, come la californiana Method, per la quale il designer ha creato dispenser e flaconi rivoluzionari nel concetto, inusuali per le forme e l’utilizzo, gradevoli al tatto e alla vista.
Non solo. I suoi progetti sono esposti nei più importanti musei del mondo e in gallerie d’arte. Ha inoltre scritto, pubblicato, insegnato e tenuto conferenze in tutto il mondo.
Karim Rashid si considera un provocatore culturale e non esita a esprimere con forza e convinzione le sue idee sul design, sugli oggetti, sul mondo contemporaneo.

Karim, cos’è un “progetto di design”?
Anzitutto desidero definire il concetto di design, che non è una decorazione superficiale, non è una composizione bonsai, un dipinto a mano su un vaso per fiori: questo è artigianato. Fare un progetto di design significa creare, dare forma, eseguire e realizzare secondo un determinato piano di lavoro, ideare qualcosa e studiarlo nei dettagli; fare uno schizzo, un disegno, un modello per uno specifico scopo. È una pianificazione metodologica, non un’operazione casuale. Design significa veramente costruire qualcosa, sviluppare una nuova condizione per questo mondo artificiale. Definisco il progetto di design come qualcosa che deve essere diretto alla completa soddisfazione dei bisogni e dei desideri contemporanei. Il design non deve essere legato agli stili, alla replicazione del passato, ma è lo sviluppo di soluzioni contemporanee al nostro modo di vivere.
Un’azienda che fonda la propria forza sul design e che dà un incarico a un designer, si trova ad avere a che fare con gli aspetti sociali, umani, politici, creativi ed estetici attuali, non del passato. Oggi, nella società dei consumi, non c’è bisogno di molte “cose”, in compenso “desideriamo” molto. Design non significa dunque risolvere problemi, ma trovare le risposte alle nostre aspirazioni poetiche, estetiche, emozionali e culturali. Design significa anche progresso e innovazione ed è fondamentale per le aziende realizzare oggetti che rispondano alle nuove aspirazioni del consumatore. Se un’azienda non si rinnova di continuo, non può sopravvivere “ai giochi” della globalizzazione, che si sono aperti e sembrano destinati a durare. Non si può più pensare in modo localizzato.

Hai mai avuto un progetto ideale (non necessariamente di design) che in seguito hai potuto realizzare?
Sono molto contento di essere andato oltre il puro ambito del disegno industriale. Faccio mostre d’arte da cinque anni, alla galleria Sandra Gering, da Deitch Projects di e da Elga Wimmer gallery a New York e in parecchi musei come l’Institute of Contemporary Art inoltre sono stato pubblicato su varie riviste d’arte, ma il mondo dell’arte contemporanea fa fatica a prendermi sul serio, soprattutto per i miei prodotti “democratici” a basso costo.
Sono uno dei pochi designer al mondo che fa anche arte ed è magnifico incrociare vari confini, infatti mi occupo anche di musica, film, moda. Il mio vero desiderio è vedere la gente vivere al ritmo del nostro tempo, partecipare a questo mondo e abbandonare ogni forma di nostalgia, le tradizioni antiquate, i vecchi rituali, il kitsch senza senso.
Se la natura umana spinge a vivere nel passato, cambiare il mondo significa cambiare la natura umana. Ho capito che il design ha il potere di cambiare radicalmente i comportamenti sociali, politici e umani; che il suo senso è dare una forma al miglioramento, scolpire un mondo a bassa complessità, bello, intelligente e confortevole. Ho capito che design è il termine che esprime la nozione di contemporaneità e che, quando ci riferiamo al design, stiamo parlando di argomenti attuali, che stiamo già dando forma all’adesso.
Quando ero giovane pensavo a un mondo robotizzato, dove tutto poteva essere prodotto senza il faticoso lavoro di manodopera. Un mondo non disgiunto dalla tecnologia, in cui si potesse comunicare ovunque in tempo reale e immaginavo i nostri spazi come luoghi iperestetici, energetici ed intelligenti. Pensavo anche che nuove tipologie di prodotti, edifici, automobili, arredi, abiti, avrebbero veramente ispirato una nuova info-estetica digitale. Nel 1967, con mio padre e mio fratello, andavo quasi ogni giorno all’esposizione universale di Montreal e vedevo un mondo pensato e progettato da personaggi come Buckminster Fuller, Sarrarin, Colani, Nelson e altri, e quello era il mondo in cui speravo di crescere. Adesso quel mondo è qui, ed è anche più bello, più digitale, più viscerale, comportamentale, comunicativo e fantasmatico che mai. Ed io voglio continuare quella missione, in modo che tutti possiamo abbracciare e connetterci al mondo contemporaneo.

Creatività e design. Che metodo segui per sviluppare nuovi progetti?
Ogni progetto segue metodologie leggermente differenti. La metà delle volte le idee mi vengono durante il primo incontro con il cliente, ma siccome credo in un rigoroso processo metodologico, sviluppo anche altre soluzioni, faccio moltissimi schizzi, ricerco e analizzo procedimenti, tecnologie, materiali, comportamenti umani, per ritornare infine strategicamente alla prima idea. In altre occasioni, prima di arrivare alla soluzione giusta, devo lavorare su vari concept diversi.
Traggo ispirazione da molte cose, dalle parole, dalla filosofia, dall’arte, dalla cultura popolare, dalla musica, dalla vita di tutti i giorni, dai computer e dai programmi digitali, dalla tecnologia. Quest’ultima dovrebbe essere tutt’uno con la produzione, i materiali, il progetto, e comprendere anche l’eliminazione o il riciclo del prodotto. Non è fondamentale che il consumatore sappia tutto ciò, penso infatti che ai suoi occhi l’oggetto debba solo giocare un ruolo umano e che la tecnologia serva solo a renderlo più democratico, a conferirgli poesia e carattere.

Come vedi il nostro mondo futuro?
Il design sarà il nostro scenario universale, senza differenze di luogo o di firma, ma umano, flessibile, organico, intelligente e sperimentale. Credo che i nuovi oggetti che danno forma alla nostra esistenza siano transconcettuali, ibridi multiculturali, oggetti che possono esistere dovunque, in differenti contesti, che sono naturali e sintetici, ispirati dalle telecomunicazioni, dalle informazioni, dall’intrattenimento, dalla tecnologia, da nuovi comportamenti e dalla produzione. L’attuale cultura degli oggetti cattura l’energia dell’era digitale. Nuovi procedimenti industriali, nuovi materiali, il mercato globale, da tutto si può trarre ispirazione per il rimodellamento delle nostre vite.

E il packaging?
È tempo che tutti i prodotti siano belli e intelligenti, indipendentemente dal loro costo; anche l’imballaggio più economico deve essere risolto nell’estetica! Nel ventunesimo secolo ogni packaging verrà ripensato e ridisegnato. Il packaging è necessario e può fornire alla gente esperienze sempre più seducenti. Generalmente, per quanto riguarda il settore cosmetico, i flaconi sono più importanti della fragranza stessa, ma in un ambito che vende immaterialità, il package deve “rappresentare” il profumo, comunicarne l’essenza e tutto il lavoro, l’energia e la complessità che c’è dietro la sua creazione. La bottiglia fornisce identità, marca e un’interpretazione materiale a qualcosa che è assai complesso e astratto. Per secoli le bottiglie di profumo sono state abbellite e rese monumentali.
Un tempo tutti i prodotti erano più decorativi e ornamentali di adesso. Parlavano di ritualità, religione, classi, lusso, regalità, iconoclastia.
Oggi invece, il design “alto” è relegato alla forma di un perfetto rettangolo, ma è noioso, invece abbiamo bisogno di bottiglie che siano il racconto semantico sia del profumo che di un modo di essere.
Nel cosmetic packaging ho lanciato la tendenza di disegnare flaconi che possano essere riutilizzati una seconda volta, invece di essere buttati via. Amo disegnare cosmetici, mi sento molto a mio agio nel farlo, ma sto anche attento a non specializzarmi in questo settore.
Non credo nella specializzazione. Penso che il mondo non abbia frontiere e mi piace navigare tra tutte professioni del progetto, architettura, arte, design del prodotto, interior design, arredamento, mostre, accessori, moda, etc. Mantenendo i confini sfumati posso affrontare qualunque ambito e tipologia, in modo sempre nuovo e differente e ogni progetto diventa motivo di ispirazione per il successivo.

Fra l’altro, hai disegnato i cosmetici monodose di Prada – cosa ci puoi raccontare in proposito?
Il concetto alla base dei monodose di Prada era legato al viaggio, alla nostra esistenza nomade, ad avere prodotti facili da portare, da usarsi solo una volta e puri, perché non contaminati da germi o batteri presenti nell’aria; così se si va in viaggio, o semplicemente in ufficio, o se si sta via solo una notte, si può prenderne solo il quantitativo necessario perfettamente asettico.
Il lavoro è stato lungo e complesso, abbiamo sviluppato 38 diverse piccole ampolle, tubi, fiale, il tutto derivato da schizzi originali non preesistenti. Il progetto è durato tre anni, con grande sforzo di ingegnerizzazione e ricerca.

Qual’è il ruolo degli oggetti nella nostra società?
In mezzo a questo eccesso di merci e di oggetti, la possibilità di “iper -consumare”, di subire la dipendenza dall’immediata soddisfazione del consumo è pericolosa. Ci circondiamo di immmagini, manufatti e prodotti, per dare senso alla nostra esistenza, per creare memoria, presenza e senso di appartenenza. Ma siamo diventati consumisti anche per “passare il tempo”, per gratificare il nostro ego. Avremo sempre “cose” nel nostro mondo, quindi non sto suggerendo di astenerci dal consumare o dal possedere, ma solo di essere iperconsapevoli, di amare e di gioire dei nostri oggetti.
Oppure di farne senza. Gli oggetti caratterizzano il nostro tempo, i luoghi, le relazioni. Possono avere relazioni fenomeniche con la quotidianità e con noi stessi, ma allo stesso tempo possono crearci stress, ostacolare la nostra vita e complicarla. Aggiungere qualcosa alla propria vita può significare anche sottrarre o togliere così che, invece di consumare, si potrebbe “de-consumare”: una teoria di addizione tramite sottrazione, dove il meno può essere il plus. E questo non in base a un approccio minimale o riduttivo, piuttosto come sistema per arricchire la propria vita, accrescendo la propria esperienza con le cose belle, quelle più amate, selezionando le nostre scelte per avere una vita più ricca e per realizzare, alla fine, il lusso più importante del ventunesimo secolo: il tempo libero.
Eliminando le banalità e le frustranti perdite di tempo, potremmo trascorrere il tempo a pensare, creare, amare, essere, usando il tempo in modo più costruttivo. Potremmo anche essere semplicemente più felici, perché adesso siamo bombardati da troppe meschinità, da cose ordinarie, da esperienze mediocri.
Sì, possiamo crescere anche attraverso la sottrazione.

I’M Glam

A volte succede. Che l’alto e il basso e si tocchino, che il lusso e il mercato di massa si incrocino, che l’haute couture e il packaging si uniscano e producano valore. Succede, soprattutto quando i protagonisti della nuova edizione di Nivea Glam sono una crema cult e un couturier visionario come Antonio Marras.

Sonia Pedrazzini

Lo stile di Marras è inconfondibile, sia nel mondo della fashion – di cui rappresenta un caso unico in Italia per la sua idea di moda fantasiosa ed anticonformista – sia nelle altre attività culturali ed artistiche in cui questo infaticabile creativo si impegna costantemente.
Gli elementi chiave del suo lavoro sono il racconto, l’ornamento e il recupero della manualità artigiana.
Alla base di ogni collezione c’è sempre uno spunto narrativo, una storia, spesso incentrati su personaggi e vicende legati alla Sardegna, il luogo in cui ha scelto di vivere e lavorare, lontano dalle grandi città e dai centri più importanti del mercato economico.
I temi ricorrenti e più profondamente sentititi sono quelli dell’identità e della differenza, del viaggio, della nostalgia, della perdita, ma quello che poi dà voce alla forma dell’abito, il suo aspetto comunicativo, è l’ornamento, per il quale lo stilista dichiara una sfrenata passione. Grazie all’ornamento la forma può coinvolgerci emotivamente e fisicamente; da qui una moda, quella di Marras, prodiga di particolari e dettagli, opere sartoriali che richiedono tecniche di esecuzione straordinarie e che spesso fanno appello alla sapienza delle artigiane di Ittiri, depositarie della tradizione del ricamo sardo.
Racconto, ornamento, manualità artigiana.
Gli stessi ingredienti Marras ha usato per ridisegnare il packaging della “special edition” della crema Nivea.
Protagonista di questa storia è una figura femminile stilizzata, dall’aria retrò e dallo sguardo sognante, che cambia abito pagina dopo pagina, ma dagli oblò perforati fa sempre capolino la mitica creme, ridisegnata con maxi pois bianchi su fondo blu, finché, nell’ultima pagina, la Nivea-doll prende addirittura vita: si può infatti estrarre dal libro per giocare a vestirla come le bambole di carta di un tempo.
Il book è chiuso da un nastro di tela bordeaux ed è contenuto in una shopping bag in canvas ecrù, che sembra disegnata a mano. Il tutto ha un’aria estremamente raffinata ed artigianale, ed è prodotto in serie limitata, 2000 pezzi numerati posti in vendita al prezzo di 30 euro.
Una Nivea troppo costosa? Un accessorio Marras assai economico?
Non importa quale sia la risposta, in questo caso la favola è happy ending, perché sia il compenso dello stilista sia il ricavato delle vendite saranno devoluti a sostegno di un importante progetto di Emergency: la creazione di una corsia chirurgica pediatrica all’interno dell’ospedale di Lashkar-gah, in Afghanistan.

Antonio Marras, hai “vestito” con il tuo stile la confezione di un prodotto storico e popolarissimo come la crema Nivea. Puoi spiegarci come è nata questa collaborazione?
La proposta di inventare un’edizione limitata della ultra-famosa crema Nivea è arrivata esattamente un minuto dopo che mi ero ripromesso di non accettare più nessuna proposta di collaborazione, causa esubero di lavoro: ma la simpatia istintiva che si prova verso quella crema bianca, quell’immagine così familiare e quel profumo inconfondibile hanno fatto sì che, ancora una volta, non mantenessi l’ennesima promessa fatta a me stesso!
Per uno curioso e amante delle sfide come me era impossibile resistere alla tentazione di “dissacrare” questa vera, immutabile icona: esiste qualcuno al mondo che non conosca il barattolo di latta blu con la scritta bianca, da oltre 50 anni sempre lo stesso, presente in tutte le case del mondo? Non è un caso, infatti, che abbia voluto lavorare proprio sulla confezione più classica, escludendo da subito le versioni da borsetta, molto carine e pratiche, ma già troppo “fashion” e moderne rispetto al progetto che avevo in mente. La prima idea istintiva è stata quella di “sporcare” il rigore del monocolore blu con pois bianchi e con una textura densa al tatto: pensando ad una scatola che la contenesse, pian piano è venuta fuori l’idea di un libro-oggetto-bambola, che prende vita pagina per pagina. A progetto terminato, si potrebbe dire che il contenitore ha quasi preso il sopravvento rispetto all’oggetto originale su cui ci era stato chiesto di lavorare, tenendo conto anche del fatto che il tutto è contenuto in una shopping di tela ecrù con stampa effetto manuale.

Parlando di packaging più in generale, che significato ha per te la confezione nel sistema del gusto contemporaneo?
Per me, fondamentale! Mi è capitato di acquistare cose e oggetti solo perché completamente affascinato dall’involucro che li conteneva e totalmente disinteressato al contenuto… Del resto, da sempre pongo moltissima attenzione a tutto ciò che serve ad anticipare un argomento, a comunicare l’oggetto: fin dall’inizio ho investito molto, in termini non solo prettamente economici ma piuttosto di pensiero e di creatività, sugli inviti alle mie sfilate. Dal momento che tratto le mie collezioni come fossero storie da raccontare, le sfilate sono per me le sceneggiature del racconto e l’invito una sorta di introduzione. Lo stesso vale per il packaging.

Cos’è il lusso? Uno stile di vita, la qualità dei prodotti, uno stato mentale…
La parola lusso, presa in sé, non ha nessun significato: è un concetto troppo generico ed ampio per avere una valenza unica e comune. Il lusso inteso semplicemente come oggetto costoso mi sembra assai lontano dall’essere un fenomeno di massa, soprattutto in questi tempi decisamente di crisi: solo i palliativi del lusso possono essere così definiti.
Personalmente, il lusso a cui ambisco di più è il tempo: non il tempo libero, si badi bene, ma tempo per riuscire a fare tutte le cose che vorrei fare e a cui vorrei dedicarmi di più.

Sempre più spesso il mondo della moda dialoga con quello dell’arte contemporanea; come vedi questo rapporto considerando anche le tue dirette esperienze personali, come la collaborazione con artiste quali Maria Lai, Claudia Losi, Carol Rama e gli eventi che ogni anno crei in occasione di Trama Doppia?
Credo che, oggi, queste categorie andrebbero in parte ridefinite; non è più una questione di prestiti o di influenze reciproche, quello che accade è che i confini tra arte e moda diventano sempre più sfumati, al punto che esiste tutta una fascia di esperienze intermedie, difficili da classificare nell’uno o nell’altro dei due ambiti. Personalmente, ho sempre sentito forte la necessità e l’importanza di lavorare su spazi di autonomia creativa.
La libertà è un lusso che mi permetto, per creare qualcosa di trasversale alla moda, qualcosa che nasca da momenti di vita indipendenti, come nel caso dell’incontro con Maria Lai o con Carol Rama. La loro modalità corrisponde in modo naturale a ciò che ho sempre creato. Di sicuro sono uno che ha la fortuna di fare ciò che più ama: un mestiere che mi permette di mischiare tutto, abiti, musica, teatro, cinema …
Mi viene in mente un episodio che riguarda proprio Maria Lai. Una volta le dissi che avevo copiato un suo disegno. Mi ha risposto: “l’arte è un continuo rubare, non ti preoccupare, io rubo dappertutto. Nel momento in cui la rubi, l’opera diventa tua”: ecco, forse la relazione tra arte e moda potrebbe sintetizzarsi in questa immagine.
Secondo te, che ruolo ha assunto oggi la moda nella nostra società, e verso quali direzioni si sta evolvendo?
La moda è uno dei mezzi più efficaci che abbiamo per auto-rappresentarci, quindi svolge una funzione importantissima, anche se per la maggior parte delle persone, compresi ahimè coloro che reggono le sorti dell’economia nazionale, è un gesto frivolo e insignificante. Ci permette di segnalare appartenenze etniche, politiche, ideologiche, culturali; ma ci permette anche di giocare con le apparenze, di costruire e decostruire l’identità che vogliamo offrire allo sguardo degli altri. Più importante ancora, attraverso la moda possiamo elaborare simbolicamente il cambiamento, il tempo che passa, la realtà che si trasforma con ritmi sempre più accelerati. Possiamo accettare di lasciarci il passato alle spalle, di aprire la porta al presente, di guardare al futuro.
Data la situazione economica critica che stiamo attraversando, il bisogno di moda è destinato a far leva sempre più sulla richiesta di prodotti caratterizzati da vera identità ed unicità progettuale. Da questo punto di vista l’Italia al momento non regge il confronto con altre realtà nazionali, che hanno fatto della sperimentazione e dell’innovazione formale i loro punti di forza.
La possibilità di una crescita nel settore mi sembra quindi legata alla sua capacità di rinnovarsi potenziando la ricerca creativa.
È ciò che mi auguro per il bene di tutto il settore, e per il suo positivo sviluppo futuro.

Non c’è trucco non c’è inganno

Il trucco non mente quasi mai, anche se inganna sempre

La parola “trucco” nasconde un significato sinistro e fuorviante. Essa rimanda a una procedura ingannevole, a una mistificazione, ci fa intendere che c’è una verità autentica, una realtà, al di sopra della quale viene stesa una sorta di maschera con lo scopo di nascondere le imperfezioni del reale e di contribuire a migliorare l’aspetto del soggetto, falsificandolo. A causa di questo, che io ritengo una sorta di retaggio cattolico, il nostro atteggiamento nei confronti della cosmesi resta profondamente ambivalente: da una parte ne rimaniamo soggiogati ed affascinati, dall’altra la consideriamo una sorta di camuffamento che nasconde il vero Sé del soggetto dallo sguardo degli altri, un segno di debolezza, trasmesso attraverso un’impropria dimostrazione di forza.
Le cose tuttavia non sono affatto così semplici: basterà poco per accorgersi che questo vero Sé che starebbe sotto la maschera è esso stesso una finzione e una mascheratura (un po’ come, nell’agricoltura biologica, il frutto “vero e naturale” sembra contrapporsi al frutto “finto ed artificiale” prodotto attraverso il trucco dei pesticidi e dei conservanti chimici ma, in realtà, sappiamo benissimo che il processo di produzione cosiddetto biologico è anch’esso basato su una serie di tecniche e di procedure che devono portare il prodotto a prestarsi alla grande distribuzione e che l’uso del termine “autentico” è qui fortemente discutibile, tanto più dopo che molti scandali hanno messo in luce la falsità di alcune produzioni che si fregiavano dell’etichetta biologica). Che cosa sarebbe infatti questo vero Sé del soggetto? Freud sostiene che noi perveniamo ad una definizione di noi stessi (rispondiamo alla domanda “chi sono io?”) solo attraverso una serie di identificazioni successive, come se, per sapere chi siamo, dovessimo semplicemente mostrare la gallery fotografica di tutte le persone che abbiamo incontrato, amato, odiato, desiderato ed invidiato fin dalla nostra infanzia; una gallery dalla quale non sono ovviamente escluse le persone immaginarie: gli attori dei film, le pop star, gli idoli televisivi con i quali ci siamo identificati. Ecco: noi siamo la sommatoria di una serie di immagini portate dentro di noi, siamo questa sommatoria in un modo tutto nostro e magari originale, ma siamo appunto questa pluralità di soggetti psichici differenti all’interno dei quali è semplicemente stupido chiedere quale sia quello autentico.
Se le cose stanno così allora qual è il compito svolto dal trucco? Cosa otteniamo truccandoci? Semplicemente decidiamo di far vivere per un certo lasso di tempo una delle tante “persone psichiche” che compongono la nostra identità, la facciamo vivere perché essa svolga il suo compito che può essere tanto quello di suscitare ammirazione e desiderio (come accade nella nostra raffinata società occidentale) quanto quello di segnalare un’intenzione aggressiva o un intento minaccioso come accadeva in alcune società tradizionali.
Non appena l’intento seduttivo o quello minaccioso vengono meno, anche la personalità suscitata può ritornarsene in buon ordine al suo posto in mezzo alle altre senza bisogno che essa appaia come prevalente.
Così, allora, il trucco non mente quasi mai, anche se inganna sempre.
Non mente perché rispecchia sempre un aspetto del soggetto; inganna sempre perché ipostatizza questo aspetto facendo sì che esso prevalga su tutti gli altri e dando la falsa illusione che esso sia l’unico.
Il guerriero non è solo guerriero ma anche contadino, padre, etc. la donna non è solo femme fatale ma anche madre, casalinga, compagna, etc. Tuttavia, anche questo non basta per dirci cosa significhi veramente oggi truccarsi e, soprattutto, se questa operazione sia ancora possibile: se è vero infatti che il trucco non è una semplice falsificazione da contrapporre alla verità, ma rappresenta sempre e soltanto una delle possibilità del soggetto che si trucca, bisogna anche aggiungere che questa operazione per avere senso deve essere socialmente codificata. Non c’è niente che meglio del trucco rappresenti l’ordine simbolico di appartenenza, non c’è niente di meno esportabile, e non c’è niente di più caratterizzante. Ed in effetti il maquillage, a differenza dell’opera d’arte, non può nutrirsi semplicemente dell’energia creativa del soggetto, ma deve trarre la sua fonte di ispirazione principale da una serie di esperienze ben codificate, ci si trucca seguendo un modello definito e l’abilità della messa in atto si misura sulla base dell’efficacia sociale che esso dimostra. Il trucco è cioè una pratica simbolica e non immaginaria. Si comprende bene tutto questo quando si riflette su come sia facile per chiunque registrare la pacchianeria di un trucco eccessivo, come se ognuno di noi possedesse a questo riguardo un canone estetico ben definito ed assolutamente rigoroso. Nel trucco, come in nessuna altra cosa, non è bello ciò che piace ma ciò che risponde a delle precise esigenze sociali. La sua efficacia seduttiva dipende dalla cultura di appartenenza: i trucchi delle donne appartenenti a società primitive sono per noi mostruosi ma affascinano i membri di quelle stesse società, e l’esperienza non è mai esportabile.
La femme fatale e il guerriero, appartengono a dei modelli prodotti da un sistema culturale cui il soggetto si ispira quando decide di truccarsi, ma cosa succede quando questi modelli smettono di esistere? Quando il sistema sociale non offre più punti di riferimento che non siano obversi (che non rappresentino altro che lo sguardo stesso del soggetto)? Succede che truccarsi diventa impossibile perché non esiste più alcun sistema codificato di riferimento, perché non si sa più cosa dire, quali sentimenti suscitare e a chi rivolgersi. Succede che si passa dal trucco al non-trucco, dalla comunicazione seduttiva alla seduzione della non-comunicazione. Va perduta la distinzione di genere e il volto del soggetto non rimane vuoto o senza trucco ma si lascia coprire da una serie di tracce misteriose il cui mistero deriva dal fatto che sono come un linguaggio senza codice, una serie di immagini senza senso, come nel dripping di Pollock: c’è ancora un quadro ma è un non-quadro, di cui permane soltanto il gesto – come se si scrivessero ideogrammi incomprensibili per il puro gusto di lasciare un segno sulla carta.

Antonio Piotti, psicologo,ha pubblicato (con M. Senaldi) Lo Spirito e gli Ultracorpi, Franco Angeli 1999 e Maccarone m’hai Provocato, Bulzoni, 2002.

Antoni Muntadas: il Packaging come Medium

Nelle opere dell’artista catalano il packaging è un contenitore di senso ma anche una sottile denuncia dell’universo consumista.

Marco Senaldi

L’interesse di Antoni Muntadas – catalano residente a New York, attivo come artista da oltre trent’anni, veterano di Documenta e di Biennali – è indirizzato verso quello che lui chiama, fin dagli anni 70, il “paesaggio mediale”, “the media landscape”. Con questo termine intende non tanto l’invadente presenza nel panorama urbano di schermi, videocamere, tabelloni pubblicitari, light-box, segnali luminosi, e via dicendo, quanto il fatto che la comunicazione di massa ha veramente eroso il significato di ogni altra forma comunicativa dall’orizzonte delle società avanzate.
Tutte le installazioni a cui Muntadas ha dato vita in questi anni, la maggior parte delle quali raccolte nella grande antologica Proyectos che la Fundaciòn Arte y Tecnologìa di Madrid gli ha dedicato nel 1998, parlano di questo: la sparizione del significato proprio nell’epoca in cui è diventato più facile trasmetterlo in ogni sua forma.
In This is not an Advertisement (“Questo non è uno slogan pubblicitario”), del 1985, ad esempio, egli ha usato il tabellone pubblicitario più famoso del mondo, quello in Times Square a New York, appunto per trasmettere la frase che dà il titolo all’opera – creando un evidente cortocicuito di senso. In un’altra installazione, Exhibition (1987), ha costruito una mostra perfettamente vuota, senza opere, esponendo le tipiche forme di installazione che si impiegano nell’allestimento di una mostra: le luci soffuse per i quadri a parete, il videoproiettore acceso per i video, il piedistallo per le sculture, il proiettore di diapositive per le fotografie, le bacheche illuminate per i disegni, ecc. È chiaro che con lavori come questo Muntadas ci dice come gran parte del fascino di cui godono le opere nei musei dipende non tanto dal loro contenuto – ormai secondario – quanto dall’eleganza con cui sono esposte.
Per Muntadas, nell’epoca dei mass-media succede davvero che il medium finisca per diventare il messaggio, che il contesto predomini sul testo, che la cornice diventi più importante del quadro e, alla fine, coincida con esso.
In questa direzione, non stupisce che questo artista abbia dedicato notevole attenzione al tema del packaging, non tanto come contenitore dominato dai segni della marca, o come veicolo pubblicitario, quanto come cornice che racchiude un contenuto su cui finisce per prevalere. D’altra parte la cornice, proprio come elemento che separa, che segna la differenza tra esterno e interno, tra contenuto e ambiente circostante, tra prodotto e consumo, è anche un concetto molto interessante perché può diventare a sua volta un tramite per nuovi e imprevisti significati.
Chiamato ad esempio a pensare un progetto di “public art” per lo spazio di arte contemporanea francese La Maison du Rhone, Muntadas ha rinunciato a grandi installazioni per le strade o le piazze della città, a favore di un intervento molto più “modesto” ma anche a grande diffusione nella vita pubblica locale, ossia la messa in produzione di una bottiglia (a tiratura illimitata, quindi non da prendersi come “multiplo d’artista”) che recava l’immagine a rilievo della stessa Maison. «In fondo – dice lui stesso – il Museo non è forse una forma di packaging?».

Ma l’opera che più lascia sorpresi per la sua scarna semplicità risale al 1987 e si intitola Natura Morta Generica. In sostanza si tratta dell’esposizione, sugli scaffali della galleria parigina Gabrielle Maubrie, di una serie di prodotti confezionati, e dei loro “ritratti fotografici”, proprio come se fossero pezzi d’arte. Il fatto che i prodotti scelti non riportassero sulla veste grafica esterna, rigorosamente in bianco e nero, nient’altro che il nome del loro contenuto, dà senza dubbio a tutta l’installazione il tono, quasi raffinato ed elegante, di un’abile costruzione “concettuale”.
L’artista stesso (che abbiamo incontrato in occasione di un workshop a Torino) spiega che si trattava semplicemente di merci realmente esistenti comperate in alcuni hard discount che le vendevano in quella forma evidentemente per recuperare margini sul costo del packaging e del graphic-design dell’imballaggio.
“Io sono più interessato a questo tipo di approccio culturale sui dettagli, che alle grandi teorie”, dice, e conferma che l’opera sulla natura morta faceva in effetti parte di un progetto più ampio sulla “genericità”, ossia su quegli oggetti, fatti o significati che, per abitudine o debolezza abbiamo smesso di considerare “specifici” cioè degni di attenzione.
«In Natura Morta Generica c’era un po’ un riferimento alla Merda d’Artista di Piero Manzoni, ma anche alle tele spagnole di bodegones [quadri barocchi di caraffe e bottiglie]; l’idea era quella di un prodotto anonimo che, se non diventa originale, assume un’altra presenza, cambiando un po’ il contesto».
Tramite la messa in bella mostra della merce nella sua forma “generica”, e perciò, anche se imballata, totalmente spoglia di segni, lo spettatore è condotto a riflessioni contrastanti sullo statuto degli oggetti e sul proprio desiderio in quanto consumatore. Da un lato, la merce, svestita dagli abiti sgargianti con cui la si incontra solitamente sugli scaffali dei supermercati appare grigia, monotona e quasi triste, priva di quell’appeal seducente a cui siamo ormai da troppo tempo abituati. Dall’altro, esposta così, nell’aristocratica cornice di una galleria d’arte alla moda in una città europea come Parigi, acquista un plusvalore, un’aura di artisticità, che dà alla sua modesta veste grafica un senso di metafisica astrazione.
Su tutto, in Natura Morta Generica vince l’estrema pulizia formale che rimanda non a caso alle antiche nature morte spagnole del XVII secolo, insieme a una compostezza quasi morandiana – cose molto belle, che non cancellano però la sottile denuncia della frenesia consumista che caratterizza il nostro rapporto con gli oggetti in questo passaggio di secolo.

«Non amo molto il packaging, sono abbastanza anti-consumista… Se devo comprare qualche cosa divento super-nervoso. La cosa che mi ha sempre sorpreso negli USA è che la gente si trova per andare a “fare shopping” insieme, come un fatto socializzante; ma anche in Spagna si sente dire “vamos de compras” (andiamo a far compere)» dice nel suo italo-spagnolo da artista semi-nomade.
«Non mi piace neanche collezionare oggetti. L’unica cosa che ho collezionato per anni – e ne ho veramente tanti – sono quei fogli messi sull’aereo con le istruzioni per come salvarti. È una cosa che nessuno legge. Strano, perché dovrebbe servire a salvarti – nel caso succeda qualcosa sicuramente uno si darebbe dello stupido per non aver letto le istruzioni. È divertente perché è un oggetto basato sulle figure, ma, anche se il messaggio è sempre uguale, il disegno cambia; ogni Paese e ogni compagnia aerea lo interpreta in modo diverso, Lufthansa è differente da Iberia, Quantas da Alitalia, eccetera. Dà molti riferimenti sulla cultura del Paese da cui proviene; però, anche se il disegno vorrebbe essere generico e chiaro, il fatto è che anche la “chiarezza” è un concetto che cambia – in alcuni casi, per certi Paesi come la Corea o il Giappone, è addirittura barocco. Così, l’ho utilizzato per il lavoro sulla traduzione a cui sto lavorando – On Translation – un work in progress che proseguo dal 1997.
Quello che mi interessa è appunto questo rapporto fra lo standardizzato e lo specifico.
Sto anche facendo un lavoro per Barcellona, sul merchandising museale di Mirò. La Càixa, ad esempio, una grossa banca spagnola con un intenso programma culturale, ha preso il suo logo da un segno di Mirò, così anche la Iberia Airlines, e anche l’Ente per il turismo spagnolo, per le sue pubblicità.
E alla Fundaciòn Mirò è tutto un merchandising che va dai piatti
alle t-shirt, dalle calze all’underwear! Poi, quando sono stato a Cuba, per la Bienal de Havana, ho visto che è successo lo stesso con Che Guevara… In Spagna hanno messo il merchandising nel museo, là hanno usato tutto il Paese!».

Le chiacchiere amabilmente intelligenti di Muntadas fanno pensare… Forse che anche gli Stati, i Paesi e le Nazioni si stiano trasformando in giganteschi packaging, con i loro bravi logo colorati e le istruzioni per l’uso, senza che noi, genericamente disattenti, nemmeno ce ne accorgiamo?

la Luna e la Peonia

A Hong Kong i professionisti della grafica si chiamano Kan & Lau. Tradizione e contemporaneità, Oriente e Occidente si fondono nel packaging di due rinomati designer cinesi.

Sonia Pedrazzini

Kan & Lau Design Consultants è una delle più importanti agenzie di grafica di Hong Kong. Lo studio opera dal 1976 e i suoi fondatori, Kan Tai Keung e Lau Freedman, sono noti creativi, insigniti di premi e menzioni sia livello nazionale che internazionale. Nel 1993 Kan è stato segnalato da IDEA come uno dei 100 migliori designer, mentre Lau – figura di spicco anche nel settore del disegno industriale – ha vinto il premio di “Artist of the year” di Hong Kong.
L’agenzia si occupa di progettazione e creatività a tutto tondo: dalla pubblicità all’immagine coordinata, dal packaging al progetto industriale, allestimenti, attività culturali, persino arte pubblica. Non solo, grazie a un team di validi collaboratori internazionali e multiculturali, lo sviluppo dei nuovi prodotti riguarda sia i mercati asiatici che quelli americani. Oriente e Occidente si incontrano e si fondono sotto forma di confezioni, scatole, bottiglie, prodotti e oggetti in genere, tutti rigorosamente ad alto tasso di professionalità.
Tra le svariate creazioni dei due progettisti alcune più recenti meritano di esser citate, come il trofeo per il China Top Ten Benefiting Laureus Sport for Good del 2004 – meglio conosciuto come Oscar per lo sport – realizzato unendo tra loro le sagome stilizzate degli atleti in movimento, le cui figure sono state tratte dalla mappa Dao Yin, una delle più antiche testimonianze relative alle attività sportive; oppure il logo del nuovo canale televisivo CCTV News, in cui si è voluto integrare la parola inglese “news” nell’ideogramma cinese corrispondente, prestando grande attenzione alla fusione tra calligrafia orientale e alfabeto occidentale; o ancora, il lavoro di concept e immagine coordinata per il marchio cinese di abbigliamento per bambini Aico, in cui mascotte e pupazzetti occhieggiano alla grafica dei manga giapponesi.

Abbiamo intervistato Kan Tai Keung, uno dei soci fondatori dello studio e dal 2003 docente alla Cheung Kong School of Art and Design dell’Università di Shantou.

Considerando l’incredibile crescita economica e le trasformazioni sociali in atto, come è cambiato il packaging in Cina nell’ultimo decennio e come cambierà?
La crescita economica cinese negli ultimi dieci anni è stata rapida e ovvia; il benessere sociale ha fatto aumentare il potere d’acquisto delle persone e ha di conseguenza rafforzato il mercato locale. Oggi le aziende in Cina valutano non solo la quantità della produzione ma prestano particolare attenzione anche alla qualità dei loro prodotti. Un buon design è diventato quindi fondamentale; se poi viene situato in un ambiente che favorisce la competizione è facile che il brand arrivi al successo. Un design attento e un packaging ricercato fanno insomma aumentare la competitività del prodotto.

Quali sono le principali differenze tra un packaging disegnato da un progettista orientale e da uno occidentale?
In realtà, l’obiettivo principale di un designer, orientale o occidentale che sia, è il medesimo: soddisfare le funzioni essenziali della progettazione. Sicuramente i designer orientali sono stati influenzati dai moderni concetti occidentali, ma bisogna anche dire che essi riescono con più facilità a soddisfare i bisogni del mercato asiatico, proprio perché conoscono più a fondo le abitudini di vita dei loro connazionali. Inoltre, per loro, sarà più facile instillare nelle aziende locali i principi per una nuova cultura del brand.

Fare il pack-designer in Cina è una professione vincente?
Qui da noi il packaging design si sta sviluppando molto, e offre ancora grandi spazi all’ottimizzazione e al miglioramento; per sostenere questa crescita, l’industria ha sempre bisogno di nuovi talenti e, per questo motivo, i designer dovrebbero lavorare duro per raggiungere standard molto elevati e costruire una propria etica. È anche molto importante il rispetto reciproco e la collaborazione tra aziende e progettisti. Si tratta comunque di un tipo di professionalità ancora molto giovane in Cina e, pertanto, non può che potenziarsi ulteriormente.

Potete raccontarci un vostro progetto di packaging particolarmente ben riuscito?
Un esempio significativo è il lavoro per Wingwah Cakeshop, una casa dolciaria tradizionale cinese che aveva negozi dedicati solo ai clienti locali. Dopo l’intervento globale di brand identità, la creazione di un nuovo imballaggio e di un nuovo marchio, Wingwah è diventata una pasticceria moderna e di respiro internazionale, così aperta al mercato del turismo da trasformarsi in breve in uno dei più famosi negozi di regalistica e souvenir dolciari. In questo caso è molto evidente che, a contribuire allo sviluppo e all’espansione commerciale di questo marchio, hanno avuto grande peso sia il lavoro di brand identity che di totale innovazione del packaging.

A tal proposito, alle parole di Kan Tai Keung vorremmo aggiungere che, per quanto riguarda il nuovo logo aziendale, i caratteri del nome sono stati inscritti in un quadrato e in un cerchio, corrispondenti, rispettivamente, alla forma di una torta cinese e di una luna piena. Nell’intersezione delle due figure si intravede una peonia, altro storico simbolo dell’azienda e perciò meritevole di essere citato, in quanto, come afferma il designer stesso, quando si rinnova l’immagine di un cliente non bisogna comunque mai dimenticare le sue origini, la sua storia e la sua filosofia; invece, per ciò che concerne le confezioni, sono state create ex novo shopping bag del negozio, sacchetti per le tradizionali salsicce cinesi e le confezioni delle torte “wife” e “mini moon”. Il classico e più conosciuto “traditional moon cake”, per non stravolgerne la memoria, ha solo subito un restyling, sono stati mantenuti alcuni caratteri dell’imballaggio precedente – il colore blu con la luna e la peonia – ma oltre al nuovo logo, sono state apportate significative migliorie.

Pack is (not) Dead


Dalla poltrona sottovuoto alla “supercaramella”, è morto il packaging contenitore di merci. Il suo posto ora appartiene ad un’invisibile, ma ancora più presente, interfaccia emozionale.

Maria Gallo

I protagonisti assoluti del nostro immaginario commerciale, gli imballaggi colorati, sensuali e attraenti, che trasformano gli scaffali dei supermercati in psichedeliche Wunderkammer, stanno subendo, ormai da alcuni anni, una lenta ma radicale trasformazione.
Un processo iniziato probabilmente già negli anni ’80 quando, sebbene in alcuni settori come la profumeria, ma non solo, l’imperativo fosse “stupire”, alcuni imballaggi lanciavano già dei timidi segnali di cambiamento. Di lì a poco infatti sarebbero nati i provocanti busti femminili in guêpière dei profumi di Jean Paul Gaultier. Contemporaneamente, l’Oréal lanciava la sua linea giovane di prodotti per i capelli, Studio Line, i cui contenitori, semplici e puliti nella forma, mostravano una grafica tanto colorata quanto minimalista, chiara citazione dei quadrati primari di Mondrian.

Ancora poco, certo, per parlare di inizio della fine, ma un’indicazione precisa sulla strada da percorrere: il packaging, che fino ad allora era stato un contenitore puramente funzionale delle merci, al massimo rivestito con una grafica più accattivante per “fare scena”, avrebbe dovuto ben presto trasformarsi in una sorta di sfera magica con cui mostrare al consumatore non certo il mondo reale (l’abbiamo già sotto i nostri occhi) ma il fantastico universo delle paradisiache sensazioni merceologiche. Una sorta di scioglilingua di immagini in cui perdersi, per lo meno fino al momento della loro metamorfosi in rifiuto.
Ogni prodotto ha seguito la sua strada, ma per molti di essi la morte dell’involucro è stata quasi una tappa obbligata nel processo di trasformazione.
Alcuni esempi piuttosto emblematici sono le bottiglie di profumo di Comme des Garçons: ovali in vetro chiaro, adagiati come sassi, chiusi da piccoli tappi neri e anonimi; i flaconi erano ermeticamente sigillati in buste trasparenti sottovuoto.
Oggi, a distanza di quasi cinque anni, la stessa bottiglia è rivestita con un candido abitino bianco lavorato all’uncinetto da cui partono anche un paio d’ali. Il “sasso” e il suo nuovo abito sono ancora strozzati nella confezione sottovuoto.

Apparente anonimato anche per le confezioni dei prodotti di Body Shop, Lush o Shu Uemura, che da alcuni anni vendono i loro saponi, creme, ombretti e ciprie in scatoline trasparenti, in flaconi e vasetti standard o addirittura “al chilo” cioè sfusi, come fino a quarant’anni fa accadeva per la pasta o lo zucchero.
Evidentemente, per alcune aziende, il valore del marchio e del mondo costruito intorno ad esso, è diventato più importante del singolo prodotto. Così il packaging-protagonista si è trasformato in packaging-strumento attraverso il quale il consumatore accede al mondo del brand. Insomma nell’era dell’accesso descritta da Jeremy Rifkin come la grande rivoluzione per cui, nella new economy, più che possedere un bene, sarà sempre più importante accedere a un servizio (sia esso l’abbonamento a un internet provider o un’automobile da usare per tre giorni al mese) sarebbe già iniziata da un po’ e noi non ce ne siamo accorti.

Già nel 1985 la vodka Absolut lanciava l’operazione che, da allora, coinvolge centinaia di artisti e designer di tutto il mondo per reinventare, all’infinito, la sua anonima bottiglia. In questo modo è nato una specie di network artistico a cui il consumatore partecipa non solo visitando le mostre itineranti, ma anche acquistando la vodka. Eppure oggi, questo emblematico prodotto, sta lanciando nuovi segnali. Nelle ultime pubblicità infatti la bottiglia è presente in tutta la sua “normalità” e con un’esposizione quasi asettica nella sua finta funzionalità, alcune didascalie, con relativa freccetta, spiegano al consumatore il significato di ogni scritta, simbolo o immagine presente sulla bottiglia. Citazione o inversione di tendenza? E’ troppo presto per dirlo.
Del resto “l’asettico” è una delle categorie più sfruttate negli imballaggi in marcia verso la trasformazione. Una categoria dalla presenza scenica tanto forte da ispirare persino la creazione di veri e propri imperi commerciali.
Marchi no-brand come Muji, la catena nipponica di negozi che vendono un po’ di tutto, dalla birra alle sedie all’abbigliamento, nata nel 1980 con lo slogan “tante buone ragioni per essere abbordabile”, impone come unica regola per essere “della famiglia” il minimalismo integralista della merce e, naturalmente, anche del packaging. Nata in Giappone, oggi Muji ha molti negozi anche a Londra e Parigi.
Il marchio Ikea può forse essere considerato uno degli antesignani del minimal-pack, per di più applicato ad un campo, come l’arredamento, che ha sempre avuto, a ragione, un rapporto poco amichevole con gli imballaggi in genere; obiettivamente però il suo minimalismo non è mai riuscito a diventare seduzione.
Al contrario c’è un pezzo storico dell’arredamento, la poltrona UP5 disegnata nel 1969 da Gaetano Pesce per B&B, il cui packaging primario, un film di PVC dentro cui l’imbottito era sigillato e compresso sottovuoto come un’enorme sottiletta, partecipava attivamente al progetto complessivo. Una volta aperto il grande sacchetto in PVC, l’aria rientrava lentamente tra le celle dell’espanso e la poltrona riprendeva corpo.
Il minimalismo, la riduzione di forma e materia, il sapiente utilizzo di particolari tecnologie, ad esempio un sottovuoto, diventano insomma metafore per la pelle dei prodotti che possono mostrarsi direttamente al consumatore oltrepassando il medium dell’imballaggio come era concepito in passato.
Lo stesso risultato si può raggiungere persino percorrendo la strada in maniera diametralmente opposta, come ha fatto la Nestlè con le caramelle Polo e con i mini Smarties. Si mostra qui infatti come il packaging possa morire anche per eccesso di presenza, per gigantismo informativo. Come accade nel racconto La lettera rubata di Edgar Allan Poe, in cui la lettera della Regina è “occultata” mettendola in bella mostra (l’imbarazzante documento viene “nascosto” collocandolo semplicemente là dove più lo si può vedere, tra altre innocenti missive), l’ipercaramella Polo in polipropilene bianco, che racchiude le piccolissime caramelline reali, scompare infatti ai nostri occhi come packaging e diventa un prezioso e seducente testimonial della filosofia del prodotto.
Difficile trovare qualcuno che abbia avuto il coraggio di buttare via questo piccolo/grande pezzo di pop art quotidiana.
Ma se le merci irrompono come corpi nel paesaggio commerciale, va da sé che finiranno col sottoporsi anch’esse alla dura legge della vita e della morte.
C’è qualcuno infatti che con la morte ha deciso di giocarci davvero, abbattendo finalmente uno dei massimi tabù merceologici. Parliamo del gruppo degli adbuster, quei sovversivi del commercio globale che, da qualche anno, tutti gli anni, organizzano i “no-buy day” come segno di protesta contro il consumismo imperante. L’involontario strumento di una delle loro campagne shock è stato il dromedario che da tanti anni, suo malgrado, promuove le sigarette Camel. In suo onore è stato creato un alter ego che, per la verità, non gode di ottima salute. Si tratta di Joe Chemo, diventato, appunto, uno dei protagonisti delle anti-campagne pubblicitarie inventate dagli adbuster. Come suggerisce il nome, nel manifesto compare il fumetto di un dromedario con delle flebo inserite nel corpo mentre girovaga, con lo sguardo spento, per i corridoi di un ospedale: l’immagine suggerisce che, dopo averne fumate tante, Joe Chemo ora sia gravemente malato e che si stia avvicinando la fine dei suoi giorni. E’ chiaro che la morte del dromedario segnerebbe, immediatamente, la morte di uno dei packaging più noti al mondo. Nell’ottobre del 2000, sul sito internet degli adbuster, si chiedeva di partecipare alla raccolta dei fondi per poter acquistare un grande spazio pubblicitario in cui affiggere il manifesto con Joe Chemo. Ma già allora s’era scatenata la battaglia legale da parte dei produttori delle sigarette. Non sappiamo se, a tutt’oggi, abbia vinto il mercato o la forza delle immagini.
La morte, comunque, prelude sempre all’inizio di qualcosa di nuovo, magari inatteso, ma non per questo orrorifico. Allora, più che accanirsi contro chi sceglie di dare voce a un dromedario di cartoncino, forse le aziende farebbero bene ad occuparsi delle mutazioni culturali se, anche in futuro, vorranno continuare a far parte, con le loro lattine, delle nostre fantasie quotidiane.